Martedì 14 novembre 2017 ore 14.45, 17.20, 20.00, 22,30
Mercoledì 15 novembre 2017 ore 15.30, 18.00
titolo originale The Lost City of Z / regìa James Gray / soggetto dal libro Z. La città perduta di David Grann / sceneggiatura James Gray / fotografia Darius Khondji / musica Christopher Spelman / montaggio John Axelrad, Lee Haugen / scenografia Jean-Vincent Puzos / costumi Sonia Grande / interpreti Charlie Hunnam, Robert Pattinson, Sienna Miller, Tom Holland (II), Angus Macfadyen, Edward Ashley, Clive Francis, Ian McDiarmid, Franco Nero, Pedro Coello, Matthew Sunderland, Johann Myers, Aleksandar Jovanovic, Elena Solovej, Murray Melvin, Harry Melling / produzione Keep Your Head, Mica Entertainment, MadRiver Pictures, Plan B Entertainment, Sierra/Affinity / origine USA, Irlanda 2016 / distribuzione Eagle Pictures / durata 2 h e 20’
L’incredibile storia vera del leggendario esploratore britannico Percy H. Fawcett, che nel 1925 intraprese un avventuroso viaggio in Amazzonia alla ricerca di un’antica civiltà fino ad allora sconosciuta, convinto di fare una delle scoperte più importanti della storia.
Se esistesse un premio al kolossal alla David Lean, lo vincerebbe James Gray per questa avventura geografica esistenziale ai confini del mondo (tra Brasile e Bolivia) per scoprire l’antico e forse immaginario El Dorado, la civiltà Z nella cui ricerca imbarcherà anche il figlio, dapprima ostile al paterno vitalismo national geographic. (…) Charlie Hunnam diventa un ossessivo come Fitzcarraldo e Aguirre ma con self control senza «sturm und drang» (si rimpiange quel po’ di follia che latita) in un bel percorso narrativo anni 70, nelle penombre della magnifica fotografia di Khondji, confermando le virtù di Gray, regista che ama il gioco degli scacchi psicologico (…), rendendo mobile e nobile il personaggio della moglie, la brava Sienna Miller, che accetta le regole del viaggio e del mistero.
(Maurizio Porro)
È opera splendidamente inattuale, un film d’avventura come non se ne fanno più, che riscalda reminiscenze salgariane, ascendenze herzoghiane e ricorda a che cosa serva ancora oggi il cinema e in che cosa si differenzi dalla serialità. (…) Accurata la ricostruzione storica, viva l’emotività, buone le interpretazioni (su tutti la Miller, a Hunnam difetta l’ossessione), è cinema all’antica e insieme nuovissimo, maschio per davvero e buono senza buonismi, che celebra etica ed epica, famiglia e sortita, assolo e coralità. Non perdetelo.
(Federico Pontiggia)
Parla il regista
Girare il film è stato un inferno dal punto di vista fisico. Siamo stati quattro mesi nella foresta colombiana, vicino al fiume Don Diego: c’erano 40 gradi e il cento per cento di umidità e niente aria condizionata. Dopo un mese mi sono seriamente chiesto se ce l’avremmo fatta. Abbiamo dovuto evitare coccodrilli e ragni, alcuni membri della troupe sono stati morsi da serpenti, uno ha preso la malaria e molti la febbre. Sono un po’ imbarazzato a parlare di quanto è stato difficile, so bene che ci sono lavori ben più duri del mio. E poi vorrei che il pubblico apprezzasse il film per ciò che è, non per la fatica dell’impresa.
(…) Desideravo fare un film conservatore nella confezione, molto classico e narrativo, ma che il sottotesto potesse incrinare quella superficie, dicendo che tutti meritano di avere dignità, che si tratti degli indigeni o delle donne. Quel che mi ha attratto in questa storia è l’idea che tutti siamo sottomessi a un ordine: si può essere vittime della classe sociale, del genere o di una etnia. Gli esseri umani hanno la qualità pessima di dividere gli altri in categorie e guardarli dall’alto in basso.
(James Gray)