Senza antifascismo non c’è democrazia

L’ANPI alla festa del PD torinese: Ivrea citata per il caso del pubblico incontro che Ballurio vorrebbe fare con i fascisti

E’ lo Sporting Dora di corso Umbria ad ospitare quest’anno la “festa metropolitana” (quella che si chiamava, e molti chiamano ancora, “provinciale”) della federazione torinese del PD. Festa che curiosamente continua a chiamarsi de “L’UNITÀ” (ma,con caratteri diversi) probabilmente per richiamare una denominazione identitaria forte, pur sapendo che il giornale (nato con Gramsci nel 1924 e chiuso definitivamente con Renzi nel giugno scorso) non c’è più e il PD poco o nulla ha oggi a che fare con quella storia.

Sabato scorso, 2 settembre, dalla parte opposta della strada rispetto all’ingresso della festa, uno striscione retto da un piccolo gruppo di persone recita “Respingimenti in mare e lager in Libia: tradimento dei valori della Resistenza”. L’occasione è l’incontro pubblico con Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell’ANPI, sui “valori della Resistenza oggi nell’ANPI e nella politica”. 
Un incontro partecipato e vivace, per nulla commemorativo e rituale, con Nino Boeti (vicepresidente del Consiglio Regionale) del PD che apre non nascondendo la necessità di “ricucire” un rapporto dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre scorso. Boeti, che è anche presidente del “Comitato regionale per l’affermazione dei valori della Resistenza”, avverte sui gravi pericoli che corre oggi la democrazia e cita Gramsci che, nel 1921, vedeva il fascismo * presentarsi “come l’antipartito” e identificarsi “con la psicologia barbarica e antisociale di alcuni strati del popolo italiano”.

È la presidente dell’ANPI provinciale di Torino, Maria Grazia Sestero, a denunciare la sottovalutazione dei tantissimi gruppi e gruppetti che infestano i social (e non solo) con ideologie fasciste, naziste e xenofobe in maniera sempre più sfacciata. Sottovalutazione che passa attraverso la definizione di queste ideologie come “opinioni” (e qui la presidente torinese dell’ANPI cita anche la vicenda dell’insegnante di Castellamonte dichiaratasi “fascista” e quella del pubblico incontro proposto a Ivrea), mentre la democrazia, il confronto delle opinioni, è possibile proprio grazie all’antifascismo, a partire dalla base comune dell’antifascismo.

Senza antifascismo non c’è democrazia, sostiene poi Smuraglia, la nostra repubblica democratica è nata con la Resistenza, per combattere il razzismo, per la giustizia, per costruire un’Italia diversa. E la legittimazione della destra nera e fascista nasce da una crisi morale e culturale alla quale non è estranea la retorica, recitata da più parti, “dell’uomo solo al comando” (retorica che secondo una recente indagine sociologica, raccoglie peraltro un preoccupante consistente consenso). «Abbiamo già sperimentato “l’uomo forte” in Italia – dice Smuraglia – e non lo vogliamo più perché sappiamo cosa ha prodotto».
Netto anche sull’immigrazione il giudizio del presidente nazionale dell’ANPI quando ricorda i “doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale” sanciti dall’articolo 2 della Costituzione e afferma che non si può «respingere senza sapere dove vanno a finire le persone».
Tre le indicazioni proposte da Smuraglia per affermare e rafforzare la democrazia. Per cominciare «lo Stato deve essere abitualmente e normalmente democratico e antifascista, perché non è solo la XII disposizione finale [quella che vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”] ma l’intera Costituzione italiana ad essere antifascista. E non si capisce come mai troppo spesso giudici o commissioni elettorali non intervengano contro esplicite ed evidenti manifestazioni fasciste, nonostante le leggi ci siano».
Determinante per la democrazia è poi favorire, stimolare, attivare la partecipazione vera dei cittadini e, infine, «ma prima per importanza – ricorda Smuraglia –  la trasmissione della memoria alle giovani generazioni», ma «non si tratta, come spesso si usa dire, di “passare il testimone”, bensì di correre insieme, ciascuno con le proprie esperienze, perché si senta quella “voce sotterranea”, come la chiamava Calamandrei, che nel settembre del 1943 mosse migliaia di giovani ad affrontare un’impresa titanica e utopica, quale era in quel momento quella di cambiare il Paese».

Parole chiare e posizioni nette con le quali avrebbe potuto confrontarsi chi, come la presidente del Consiglio Comunale di Ivrea, Ballurio, propone  un incontro pubblico con un gruppetto locale che si richiama esplicitamente al fascismo. E sì che Ballurio avrebbe avuto pure tutti i motivi per partecipare a questo dibattito torinese di sabato scorso [2 settembre] sull’antifascismo, sia per confrontarsi con altri sul “fervore educativo” che recentemente l’ha pervasa (entrando nel merito e magari anche ragionando sui modi di esprimerlo), sia perché esponente della segreteria metropolitana del PD (l’organizzatore della festa) con l’incarico di responsabile delle “politiche della comunicazione”. Ballurio però non c’era, ma intanto Ivrea, per la prima volta nella sua storia, è stata citata in un dibattito pubblico torinese come una città che mostra di non avere  le idee chiare sul fascismo e su come combatterlo.
Una citazione non proprio onorevole per una città che, come ha già avuto modo di ricordare la redazione di questo giornale, “aveva mantenuto quel comune sentire antifascista che, dalla Resistenza in poi, ha unito la città”.
E una domanda è d’obbligo: non comincia a diventare troppo salato il prezzo che paga la città per la smania di protagonismo della responsabile delle “politiche della comunicazione” del PD metropolitano torinese?

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* «Il fascismo si è presentato come l’antipartito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo, con la sua promessa di impunità, a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odii, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia barbarica e antisociale di alcuni strati del popolo italiano (…)»
(Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo, 26 aprile 1921)

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