“Cari mi sono questi ermi colli…” : Gli appartati colli di Ancona in mezzo alla città: dal colle Guasco al colle Cardeto passando per quello dei Cappuccini; Ancona (Italia), pomeriggio del 25.05.2017
La giornata è chiara, chiarissima, un po’ calda ma leggermente ventilata, ariosa. Ci si perde, quindi, volentieri tra le strade e stradine di Ancona, incombenti sul porto, tra vicoli, anfratti e risalite; ci si rincontra con la Loggia dei Mercanti e Santa Maria della Piazza, ci si inerpica fino alla scenografica Piazza del Plebiscito e alla Chiesa di San Domenico, ci si spinge tra solitarie e monumentali vie fino a San Francesco alle Scale e, ormai in vicinanza della chiesa del Gesù e del Palazzo degli Anziani, viene voglia di arrivare, e arriviamo, al Museo Archeologico e alle chiese adiacenti (chiuse ma da sempre icone cittadine). Sono già quasi le tre. Il caldo incombe. Forse è il caso di tornare. Ma no. Sarebbe un peccato non godersi il panorama sul porto dal piazzale di San Ciriaco, sulla cima del colle Guasco. Eccoci quindi qui: ecco, dall’alta terrazza, giù, piccoli come giocattoli, l’Arco di Traiano e l’Arco Clementino, i cantieri navali, il porto commerciale e, all’orizzonte, l’aperta baia di Ancona, i monti, l’ampio luminoso mare.
Sono già le tre e mezza. Dovremmo tornare sui nostri passi ma, spinti dalla curiosità, decidiamo di andare avanti e di salire, superando l’articolato avvallamento che li separa dal colle Guasco, verso i colli che danno continuità alle falesie di Ancona, agli alti strapiombi incombenti sul mare: il colle dei Cappuccini e il colle del Cardeto. Stiamo per iniziare a nostra insaputa un’escursione misteriosa e piena di sorprese. Perché, anche per gli anconetani, questi colli, circondati ed assediati fino alla base dalla crescita della città, erano, fino a poco tempo fa, inavvicinabili. Pur costituendo magici spazi naturali di una fauna e di una flora mediterranee, vulnerabili ma resistenti. Pur avendo al loro interno edifici e luoghi storici di eccezionale capacità evocativa. La storia del loro recente, e ancora non goduto, recupero è la storia delle strenue lotte politiche tra autorità e cittadinanza al fine di integrare nella città spazi vivi e possenti ma abbandonati o maldestramente gestiti.
Non è facile descrivere questo insieme di sentieri, scalette, passerelle più o meno provvisorie, come by-pass a percorsi interrotti, che portano dal Colle Guasco al colle del Cardeto passando per quello dei Cappuccini. Non è facile descrivere la sorpresa e l’emozione che provoca la scoperta di reperti archeologici o edifici storici, recuperati o abbandonati, che illuminano la storia sociale o scientifica dell’Italia: il trascurato anfiteatro romano, le splendide chiese in rovina, i bastioni cinquecenteschi e ottocenteschi, i fari vecchio e nuovo, la magnifica Polveriera Castelfidardo, l’Antico Cimitero degli Ebrei… Ma i momenti più belli di questa inaspettata escursione sono quelli in cui i sentieri, in mezzo al bosco di pini e di allori, appena resi evidenti dalla macchia mediterranea, si avvicinano al mare, costeggiando il bordo delle alte falesie: le siepi non lasciano vedere il cielo o l’orizzonte del mare, c’è un vuoto profondo dietro, ma basta trovare l’angolo giusto o spingersi più avanti o oltrepassarle per trovarsi, a strapiombo, con il blu intenso del Mediterraneo. Con l’emozione del mare immenso.
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,/ E questa siepe, che da tanta parte/ Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude./ Ma sedendo e mirando, interminati/ Spazi di là da quella, e sovrumani/ Silenzi, e profondissima quiete/ Io nel pensier mi fingo; ove per poco/ Il cor non si spaura. E come il vento/ Odo stormir tra queste piante, io quello/ Infinito silenzio a questa voce/ Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,/ E le morte stagioni, e la presente/ E viva, e il suon di lei. Così tra questa/ Immensità s’annega il pensier mio:/ E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Paco Domene
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