“Uomini e donne”: “Boys”, coreografia di Roy Assaf; danzatori: Avshalom Latucha, Geva Zaibert, Oz Mulay, Tomer Pistiner e Kelvin Vu; costumi: D. Ashkenazi; luci: O. Sheizaf; musiche di Perez Prado, Sibelius, Dylan, Mahler, Wagner ed altri; arrangiamento musiche: R. Yehudai; testo di Chaplin: Il Grande Dittatore; 50 min; produzione: Tmuna Theatre, Assaf Dance; Israele, 2015; prima nazionale, Festival Interplay17; Teatro Astra, Torino 16. 5. 2017
“Cinque uomini danzano”, questo potrebbe essere il sottotitolo della coreografia “Boys” dell’originale, se già la danza contemporanea di per sé non lo fosse, coreografo israeliano Roy Assaf. Sono cinque uomini che danzano, sì, in quanto magnifici danzatori ma anche, soprattutto, in quanto uomini. E’ perciò una coreografia che tratta dell’identità di genere, dell’identità, quindi, del maschio contemporaneo in quanto maschio. “Boys” è divertente, a volte inquietante, autoironica spesso, piena di humor. Bella. Questi uomini che ballano sembrano dire: “Questi corpi non ci appartengono, questi corpi sono degli altri anche quando ci sforziamo perché siano nostri”, ma anche, forse, “Questi corpi ci appartengono, questi corpi non sono degli altri anche quando ci sforziamo perché non siano nostri”. Al ritmo delle variegate musiche di un mambo di Perez Prado, o della Marcia Funebre di Mahler, o di Bob Dylan o Wagner (non manca l’emblematico testo de Il Grande Dittatore di Chaplin), la danza di questi uomini è un riassunto delle spinte e dei freni che informano l’evoluzione, l’identità di genere, dell’uomo contemporaneo. Mentre danzano noi percepiamo le loro conquiste e i loro fallimenti, le loro complicità, il loro narcisismo, la loro competitività, il loro maschilismo, la loro femminizzazione, il loro infantilismo, la loro violenza… E’ una danza variegata e dinamica, spesso intercalata da pose dei danzatori, da immagini fisse, che riecheggiano l’iconologia dell’eroe o dell’uomo oggetto tipica delle arti classiche o dei media contemporanei.
I cinque danzatori sviluppano una difficile coreografia nella quale ogni gesto maschile manifesta una diversa e anche contraddittoria dimensione, nella quale la linearità della narrazione che spesso guida la danza contemporanea anche più astratta viene sostituita da una sorta di sviluppo per flash, di cerimonia dell’apparire, di bonario ed inquietante gioco dei maschi che, mentre riflettono su se stessi, invitano lo spettatore a riflettere e a dialogare con quanto sta vedendo.
Certo, prima di “Boys”, Roy Assaf ha presentato nel 2014 la coreografia “Girls”, parallelo speculare, anche nel tono e trattamento estetico e musicale, dedicato alle donne, all’identità di genere delle donne. Questa coreografia non è inclusa nel Festival Interplay, come forse sarebbe stato logico fare; al suo posto e nella stessa serata è stata inclusa “Object”, una coreografia della quale si è parlato in questa rubrica poc’anzi. Anzi, il lettore più attento forse avrà rilevato che ho usato consapevolmente paragrafi con la stessa esatta struttura in entrambi i testi della rubrica. La stessa esatta struttura ma non lo stesso esatto contenuto. Non è ovviamente casuale: per quanto i processi di evoluzione dell’identità di genere degli uomini e delle donne camminino in parallelo e drammaticamente o fortunatamente interdipendenti, non sarebbe giusto confrontarli con la stessa forza. Il processo di evoluzione dell’identità femminile è più gioioso e liberatorio ma anche più drammatico e doloroso, più dipendente di/da quello degli uomini. Ha fatto bene, quindi, il festival Interplay a mostrare nella stessa serata il parallelismo di entrambi i processi ma evidenziando la loro drammatica disuguaglianza. Il drammatico “Object” di Ivgi & Greben evidenzia, più che il bonario seppur rigoroso “Girls”, di Roy Assaf, questa differenza. Ha fatto bene, molto bene, il Festival. E credo di aver agito in modo giusto nel trattamento dei testi anch’io: la dimensione politica e morale latente sotto le differenze di entrambi i processi non va trascurata. La danza contemporanea questa volta ha fatto del suo meglio.
Paco Domene