Da qualche tempo si parla di welfare aziendale, ma molti, anche tra i lavoratori interessati, sanno davvero di che si tratta?
Siamo di fronte a una novità che sta cambiando la contrattazione aziendale e le politiche retributive delle imprese eppure anche fra i lavoratori non tutto è chiaro.
Intanto è bene sapere che si tratta di un provvedimento introdotto dal governo Renzi che comporta risparmi significativi soprattutto per i datori di lavoro. Nella sostanza – tramite accordo sindacale – è possibile trasformare in prestazioni e servizi quote di salario aziendale (premi, incentivi, ecc.), su cui l’azienda risparmia i contributi a suo carico, destinati ai lavoratori, pari a un terzo della cifra.
Per fare un esempio i gruppi Fca e Cnh, in base a una adesione del 35% dei lavoratori per la conversione in welfare di 700 euro annui, avranno un risparmio di 5 milioni e mezzo di euro! Non a caso hanno condotto una campagna a dir poco asfissiante nei confronti dei lavoratori perché aderissero al piano.
Si dice che la convenienza c’è anche per i lavoratori: in questo caso il discorso è più complesso, ma in ogni caso non c’è paragone con i risparmi garantiti all’impresa. Il lavoratore non versa i contributi a proprio carico (pari al 9%) e la cifra che viene convertita in welfare è detassata. Teniamo conto che si tratta quasi sempre di voci salariali a cui già si applica un’aliquota ridotta, del 10%, e anche questo vantaggio viene meno nel caso di prestazioni che, se pagate “in contanti”, sarebbero detraibili. I contratti nazionali, da questo punto di vista, hanno recepito “al minimo” questa legge: per esempio quello dei metalmeccanici prevede per quest’anno 100 euro in tutto sotto forma di prestazioni, in aggiunta e non in sostituzione degli aumenti salariali.
Ma è a livello aziendale che la faccenda rischia di essere molto insidiosa, e già si diffondono discorsi tipo: “vi diamo dei soldi in più ma solo sotto forma di welfare…” o richieste di trasformare quote pregresse di salario aziendale in welfare perché meno costoso per l’impresa. Insomma siamo di fronte al tentativo di sostituire prestazioni a erogazioni in denaro per garantire risparmi alle imprese sui contributi che devono versare per le pensioni dei lavoratori: un circolo vizioso che viene invece propagandato come la nuova frontiera dello stato sociale moderno e privatizzato.
Certo, il fatto che ci sia una legge non può essere trascurato, ma se ci si lascia prendere la mano si finisce per essere presi “per i fondelli”. Peraltro in questo modo si riduce e cambia di segno la contrattazione aziendale sul salario, e cambia quindi anche la natura del sindacato.
E poi si apre un mercato tutto nuovo, che in parte si è già strutturato a tempo di record: i “panieri” di queste prestazioni sono già definiti sotto forma di piattaforme a cui il lavoratore/utente accede via web, gestite da alcune grandi società in parte multinazionali, con il sostegno delle strutture locali di Confindustria. E se vuoi spendere i tuoi voucher per fare un viaggio il tour operator lo sceglie il gestore della piattaforma!
Un bel business, senza dubbio. L’unico antidoto sono proprio i lavoratori che scelgono le erogazioni in denaro, per poi decidere di usarlo come e dove vogliono loro.
Federico Bellono