L’Argentina dice di NO alla legge che dimezza la pena ai responsabili della morte dei desaparecidos

Sul manifesto di mercoledì 10 maggio ho letto la lettera che domenica 7 maggio una delle madri di Plaza de Mayo (Vera Vigevani Jarach) ha consegnato al nostro Presidente Mattarella, in visita in questi giorni in Argentina

È una lettera che contiene un lamento amaro per il fatto che il 3 maggio, riproponendo una legge approvata nel 1994 (per sveltire i tempi della procedura processuale), ma abrogata nel 2001 (per il suo evidente fallimento), una legge che equipara i delitti di lesa umanità a crimini comuni, la Corte Suprema di Giustizia della Nazione (3 giudici su 5) ha ridotto della metà – secondo la logica del 2 x 1 – le pene ai militari argentini dell’ultima dittatura, responsabili del massacro dei giovani desaparecidos.
In particolare Luis Muiña, 61enne, “repressore civile” condannato nel 2011 a 13 anni di carcere. Con questa legge, in pratica, gli aguzzini potrebbero ottenere uno sconto sulla pena, perché gli anni che hanno trascorso in carcere prima della sentenza, a partire dal secondo anno, conterebbero il doppio. Si tratta dei torturatori, dei massacratori e dei carnefici nella strage degli studenti liceali che nei sette anni della dittatura di Jorge Rafael Videla (1976-1983) sparirono nel nulla, molti dei quali attraverso i “voli della morte”, a causa della loro opposizione al regime videliano. Un regime che si era insediato con un colpo di stato militare il 24 marzo 1976 e in virtù di cui venne spodestata Isabelita Perón, con la quale, peraltro, era iniziata la cosiddetta “guerra sporca” contro le opposizioni di sinistra, civili e armate.
Questa lettera mi ha fatto ripensare alla bella e commovente lezione che Belén, una studentessa argentina del liceo Gramsci di Ivrea (una allieva di Intercultura), ha tenuto nel dicembre dell’anno scorso sulla questione dei desaparecidos, nell’ambito della commemorazione della Giornata della Memoria. In un italiano fluente e quasi perfetto, nella sua esposizione l’alunna ha evidenziato i sistemi di eliminazione e di tortura cui venivano sottoposti gli oppositori. Sistemi con i quali, nel corso del Proceso de Reorganización Nacional, vennero liquidate più di 30 mila persone. Sistemi che accomunano tutti quei governi autoritari e militaristi che si affermarono tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso. Basti pensare alla dittatura dei colonnelli in Grecia (1967-1974) o a quella di Pinochet in Cile (1973-1990) – il dittatore che fece assassinare Salvador Allende nel 1973, primo presidente marxista democraticamente eletto nel 1970. Per non parlare del Nicaragua di Somoza, a cui si opposero i sandinisti di Daniel Ortega dal 1978 al 1990, i quali (riforniti dai sovietici) furono costretti a vedersela con i Contras sostenuti dagli Usa di Reagan. Per finanziare i Contras, malgrado vi fosse l’embargo contro l’Iran a seguito della rivoluzione khomeinista del 1979, Reagan vendeva all’insaputa del Congresso armi a Hezbollah per il rilascio di alcuni prigionieri statunitensi. È il famoso Irangate. Sempre il presidente Reagan, in Salvador, nel 1980, fece leva su Honduras e Guatemala per schiacciare i governi democraticamente eletti.

Ciò per dire che come molte delle altre storie riguardanti vittime cadute sotto le dittature o semi-dittature impostesi in quegli anni in Occidente – come pure in Medioriente (si pensi, suggerisce Amedeo Cottino in C’è chi dice di no (2015), alla “politica genocida” del governo israeliano nei confronti del popolo palestinese, in difesa del quale, in particolare di alcuni prigionieri, l’Italia si è mobilitata il 19 maggio); per non parlare ovviamente della guerra del Vietnam in Estremo Oriente (durata vent’anni e cessata nel 1975, anno in cui si esaurisce, peraltro, dopo 36 anni, il regime franchista in Spagna), – ebbene, alla pari di altre vicende, pur con la sua specificità, anche quella dei desaparecidos si colloca all’interno di una storia ben più ampia: quella della guerra fredda tra Usa e Urss. Nello specifico, siamo nell’ambito dell’Operazione Condor condotta dalla Cia e dall’amministrazione Nixon in funzione anticomunista. Le torture connaturate al sistema oppressivo cui faceva cenno la studentessa sono contemplate sia dalla superpotenza sovietica, in quasi tutti gli Stati dell’est-Europa, sia da quella americana: i cavi legati ai testicoli di persone con i piedi immersi nell’acqua si sono rivisti scandalosamente anche all’indomani dell’11 settembre, nel 2002, sia nella prigione cubana di Guantánamo, sia, nel 2004, nella prigione irachena di Abu Ghraib. Ma per non essere da meno, anche l’Italia democratica, in barba alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (1950) e alla Convenzione di New York (1984), il 21 luglio del 2001, ha provato a istituzionalizzare la tortura, sperimentandola sui manifestanti nei locali della scuola Diaz di Genova e nella caserma di Bolzaneto durante il G8. È soprattutto per evitare queste storture e possibili devianze negli apparati di pubblica sicurezza che in questi giorni il Senato ha varato una norma contro la tortura. Fino a pochi giorni fa, infatti, l’Italia era l’unico Paese europeo a non prevedere nel Codice penale il reato di tortura.

L’Argentina, inoltre, come sappiamo (e la ministra Boschi lo sapeva anche qualche giorno prima del recente referendum costituzionale), è stata terra d’emigrazione. Specie di Italiani, tra Otto e Novecento. E molti furono i creoli italiani che caddero sotto i colpi della dittatura di Videla. Ma le madri di Plaza de Mayo, come vediamo, non mollano. In esse la ragione non si limita e non si accontenta solo all’osservazione. Si rende attiva. Esige una spiegazione. Da allora, infatti, ogni giovedì pomeriggio tutte quelle madri si ritrovano per circa mezz’ora in quella stessa piazza di Buenos Aires per protestare, per rivendicare giustizia e verità sui propri figli e nipoti scomparsi nel nulla e quindi per sottrarli all’oblio del tempo. Mercoledì sera, 10 maggio, Plaza de Mayo e tante altre piazze di città argentine si sono riempite di decine di migliaia di persone, le quali, assieme alle Madres e alle Abuelas, alle madri e alle nonne dei desaparecidos (nel 2008 Estela Barnes de Carlotto, presidente dell’Associazione civile delle Nonne di Plaza de Mayo è stata nominata per il Premio Nobel della Pace), hanno urlato il loro no a quella logica del 2 x1, il loro nunca más (“mai più”) a tutte le dittature e a tutti i fascismi. Giacché quella legge – avvertono sia il Parlamento argentino sia alcuni rappresentanti dell’Onu – potrebbe aprire le porte del carcere a molti dei più di 700 responsabili di quel massacro. Ma, dal palco, Taty Almeyda, una delle Madri di Plaza de Mayo ha ribadito: «Non vogliamo più convivere con gli assassini più efferati della nostra storia. Il nostro popolo non può essere condannato a dimenticare». Anche noi, pertanto, ci uniamo al loro lamento e sollecitiamo, assieme ad esse, l’intercessione del presidente Mattarella, il quale, per commemorare quelle vittime della dittatura, ha gettato dei fiori nel Rio de la Plata, fiume nel quale, con i “voli della morte”, le vittime venivano precipitate dagli aerei. Venivano fatte sparire.

Franco di Giorgi