Buona la partecipazione in piazza Castello venerdì 17; presenti CGIL, Uil e il sindacato degli infermieri Nursind, ma represso l’ingresso in piazza del corteo dei giovani pro-palestina da parte della polizia. Alcune riflessioni sulla legge 146 che norma (e limita pesantemente) da trent’anni il diritto di sciopero e la sua capacità di essere uno strumento efficace
Lo sciopero del 17 novembre ha innescato tra sindacati e governo una “conta” e un braccio di ferro sulla riuscita o meno delle piazze, ma al di là di alcune eccezioni (nel comparto scuola il dato è sotto il 7% di astensioni dal lavoro) CGIL e UIL parlano di buona riuscita della protesta, con picchi oltre il 70%. Pochi, al momento, sottolineano la parzialità del dato, visto e considerato che venerdì 24 novembre si svolgerà la seconda parte dello sciopero generale, questa volta con protagonisti tutti i lavoratori del settore privato. Alle ore 9.00 partirà il corteo da Porta Susa diretto in piazza Castello, dove si susseguiranno gli interventi dei delegati sindacali e concluderanno Ivana Veronese, segretaria confederale UIL e Maurizio Landini, segretario generale CGIL.
Al netto di alcuni dubbi circa la scelta di spezzare in due lo sciopero generale (forse per prolungare la contestazione alla legge di bilancio?) per chi c’era venerdì 17 a Torino in piazza Castello tutto si può dire fuorché sia stato un flop, come sostiene invece il Ministro dei Trasporti ironicamente sbeffeggiato col nomignolo “precetto la qualunque”.
Già alle 10 di mattina sotto il Palazzo della Regione si sono radunate migliaia di persone, con bandiere rosse e blu, striscioni a favore della pace, fischietti e lavoratori in divisa; a poca distanza, oltre la cupola allestita per le ATP Finals, sotto la Prefettura si erano riuniti gli infermieri in sciopero con le bandiere del sindacato autonomo del Nursind. Lodevole e applaudita, ad un certo punto della mattinata, la scelta degli infermieri di sfilare con le bandiere fin quasi a ridosso del presidio CGIL-UIL, come voler lanciare il messaggio che si era in quella piazza per gli stessi motivi: contrastare i salari bassi, la precarietà diffusa, la disuguaglianza galoppante e una legge di bilancio che non offre risposte alle incertezze del futuro e ripropone la privatizzazione di settori strategici dello Stato invece di recuperare risorse da chi, dal Covid in poi, ha consolidato e accresciuto esponenzialmente i profitti privati.
L’unica nota di demerito della mattinata ha riguardato invece il corteo pro-Palestina degli studenti che avrebbero voluto raggiungere piazza Castello, ma che sono stati fermati e caricati in via dell’Arsenale e poi in via Lagrange; una volta raggiunta la piazza (verso mezzogiorno) i sindacati se n’erano già andati. Tristemente d’effetto, infine, il cordone anti-sommossa della polizia a presidio e difesa della cupola ATP Finals dentro la quale si stava svolgendo un incontro sponsorizzato dall’unione industriali: l’ennesima fotografia della difesa pubblica degli interessi (privati) che contano.
Lavoratori, sindacati e quel Comitato di Garanzia che rende effimero lo sciopero senza negarlo apertamente
Le parole del Ministro Salvini hanno ottenuto l’effetto boomerang di estendere le ragioni dello sciopero alla salvaguardia del diritto stesso di scioperare, ma l’idea che lo sciopero sia meglio non farlo che farlo è opinione diffusa tra i lavoratori.
Al di là di quello che si dice alla luce del sole, nel chiaroscuro degli ambienti di lavoro è radicata la disillusione dello sciopero come strumento utile per cambiare lo status-quo. In uno Stato che vede l’esercizio del voto elettorale (ovvero lo sforzo democratico più semplice e meno faticoso che si possa pensare) disertato da quasi il 40% dei cittadini non sorprende che i lavoratori abbiano smesso di lottare e seguano le indicazioni del sindacato per lo più quando vengono messi spalle al muro e rischiano di perdere il proprio posto di lavoro.
Sulle cause di questa “abiura sociale” si è già scritto di tutto e di più e non è un mistero che questa disillusione verso i sindacati sia causa e al tempo stesso conseguenza di una disillusione molto più estesa e legata alla tenuta democratica del paese, ma in certe occasioni può essere utile cominciare a pensare a cosa può essere fatto per invertire questa tendenza, a partire dall’idea che il Comitato di Garanzia e la legge che l’ha istituito (la 146 del 1990) debbano essere ripensati e rivisti.
Un interessante articolo di Giorgio Cremaschi uscito sul fattoquotidiano.it riassume bene la storia legata alla nascita del Comitato e alla limitazione del diritto di sciopero nei servizi pubblici, mostrando come questa scelta scellerata abbia minato pesantemente l’azione sindacale e indebolito la capacità contrattuale delle stesse organizzazioni sindacali.
La regolamentazione del diritto di sciopero nel pubblico venne firmata nel 1990 con l’approvazione della legge 146 e da allora, sostiene Cremaschi, «la commissione ed il suo presidente hanno ridotto gli spazi per gli scioperi, fino a ad arrivare ad una sorta di giudizio arbitrario sulla loro stessa legittimità». Cremaschi mette poi a confronto il caso italiano con quello di altri sindacati europei: «in Germania i lavoratori dei trasporti hanno ottenuto rilevanti risultati con scioperi continuati e che coinvolgevano sia i treni che gli aerei che i servizi urbani. A Londra lo stesso è avvenuto per la metropolitana, bloccata per più giorni dalla lotta dei suoi dipendenti. In Francia abbiamo tutti visto settimane di blocco dei servizi elettrici nella protesta contro la legge “Fornero” di Macron», per poi concludere che «tutti questi scioperi, per durata o “addensamento” per usare il linguaggio ufficiale della commissione di garanzia, in Italia sarebbero illegali».
Che esista uno stretto legame tra la caduta dei salari degli ultimi trent’anni e la progressiva limitazione del diritto e soprattutto dell’efficacia dello sciopero l’aveva segnalato nel lontano 2015 anche uno studio del Fondo Monetario Internazionale, non certo una realtà “vicina” alle istanze dei lavoratori. Da una prospettiva economicista anche l’FMI giungeva alla conclusione che “l’indebolimento dei sindacati riduce il potere contrattuale dei lavoratori rispetto a quello dei possessori di capitale, aumentando la remunerazione del capitale rispetto a quella del lavoro”, portando le aziende ad assumere decisioni che avvantaggiano in primis i dirigenti.
Rimuovere le assurde limitazioni che la legge 146 ha imposto da trent’anni a questa parte può essere una goccia nell’oceano di difficoltà e contraddizioni che ruotano attorno alla questione sindacale, ma l’evidenza dei fatti di questi giorni ci insegna che scorciatoie non ce ne sono e che da qualche parte occorrerà pur cominciare, anche sul piano normativo.
Andrea Bertolino