Judith Butler, London Review of Books, 13 ottobre 2023
Le questioni che hanno più bisogno di essere discusse pubblicamente, le più urgenti, sono anche le più difficili da discutere all’interno delle categorie che abbiamo oggi a disposizione. Anche quando si vuole andare dritti al punto, ci si scontra con i limiti di un quadro che rende quasi impossibile dire ciò che si ha da dire. Io voglio parlare della violenza, della violenza attuale, della storia della violenza e delle sue molteplici forme. Ma se si vuole documentare la violenza, il che significa intendere i massicci bombardamenti e le uccisioni in Israele da parte di Hamas come parte di questa storia, si può essere accusati di “relativizzare” o di “contestualizzare”. Dobbiamo condannare o approvare, lo capisco: ma è tutto ciò che ci viene richiesto, dal punto di vista etico? Io condanno senza riserve la violenza commessa da Hamas. È stato un massacro terrificante e rivoltante. Questa è stata la mia reazione principale, e tale resta. Ma ci sono anche altre reazioni.
La gente vuole subito sapere “da che parte stai”. Chiaramente l’unica risposta possibile a tali uccisioni è una condanna inequivocabile. Ma perché, a volte, pensiamo che chiedersi se stiamo usando il linguaggio giusto o se abbiamo una buona comprensione della situazione storica sia un ostacolo a una forte condanna morale? È davvero relativistico chiedersi che cosa stiamo condannando esattamente, quale dovrebbe essere la portata di tale condanna e come descrivere al meglio la formazione politica, o le formazioni, a cui ci opponiamo? Sarebbe strano opporsi a qualcosa senza capirlo o senza descriverlo bene. E sarebbe ancora più strano credere che la condanna richieda il rifiuto di capire, per paura che la conoscenza possa avere solo una funzione relativizzante e minare la nostra capacità di giudizio. E se fosse moralmente imperativo estendere la nostra condanna a crimini altrettanto spaventosi di quelli ripetutamente messi in evidenza dai media [che hanno documentato le violenze di Hamas]? Quando e dove inizia e finisce la nostra condanna? Non abbiamo forse bisogno di una valutazione critica e informata della situazione per accompagnare la condanna morale e politica, senza temere che la conoscenza ci trasformi, agli occhi degli altri, in persone immorali complici di crimini orrendi?
C’è chi usa la storia della violenza israeliana nella regione per scagionare Hamas, ma usa una forma fallace di ragionamento morale per raggiungere questo obiettivo. Sia chiaro, la violenza israeliana contro i palestinesi è schiacciante: bombardamenti incessanti, uccisioni di persone di ogni età nelle loro case e nelle strade, torture in prigione, tecniche di assedio per fame a Gaza, l’esproprio delle case e delle terre. E questa violenza, nelle sue molteplici forme, è perpetrata contro un popolo che è soggetto alle regole dell’apartheid, al dominio coloniale e all’apolidia. Tuttavia, quando il “Comitato di solidarietà con la Palestina” di Harvard rilascia una dichiarazione in cui sostiene che “il regime di apartheid è l’unico da biasimare” per gli attacchi mortali di Hamas contro obiettivi israeliani, commette un errore. È sbagliato attribuire la responsabilità in questo modo, e nulla dovrebbe esonerare Hamas dalla responsabilità per le orribili uccisioni che ha perpetrato. Allo stesso tempo, questo Comitato e i suoi membri non meritano di essere inseriti in qualche “lista nera” o minacciati. Hanno sicuramente ragione a sottolineare la storia della violenza nella regione: “Dalle confische sistematiche di terre agli attacchi aerei di routine, dalle detenzioni arbitrarie ai posti di blocco militari, dalle separazioni forzate delle famiglie alle uccisioni mirate, i palestinesi sono stati costretti a vivere in uno stato di morte, sia lenta che subitanea”.
Questa è una descrizione accurata della realtà e va affermata, ma ciò non significa che la violenza di Hamas sia solo violenza israeliana sotto un altro nome. È vero che dovremmo capire perché gruppi come Hamas si siano rafforzati alla luce delle promesse non mantenute degli Accordi di Oslo e dello “stato di morte, lenta e subitanea” che descrive l’esistenza di molti palestinesi sotto l’occupazione israeliana, sia che si tratti della costante sorveglianza e della minaccia di detenzione amministrativa senza un giusto processo, sia che si tratti dell’intensificarsi dell’assedio che nega alla popolazione di Gaza medicine, cibo e acqua. Tuttavia, non si ottiene una “giustificazione” morale o politica per le azioni di Hamas facendo riferimento alla sua storia. Se ci viene chiesto di intendere la violenza palestinese come una continuazione della violenza israeliana, come ci chiede il “Comitato di Solidarietà con la Palestina” di Harvard, allora c’è una sola e unica fonte di colpevolezza morale, così che nemmeno i palestinesi possono riconoscere le loro azioni violente come proprie. Non è questo il modo di riconoscere l’autonomia di azione palestinese.
La necessità di separare la comprensione della violenza pervasiva e implacabile dello Stato israeliano da qualsiasi “giustificazione” della violenza è cruciale se vogliamo considerare quali altri modi ci sono per abbandonare il dominio coloniale, fermare gli arresti arbitrari e le torture nelle prigioni israeliane e porre fine all’assedio di Gaza, dove l’acqua e il cibo sono razionati dallo Stato-nazione che controlla i suoi confini. In altre parole: la domanda intorno a quale mondo sia ancora possibile per tutti gli abitanti di quella regione dipende dai modi per porre fine al dominio coloniale. Hamas ha una risposta terrificante e spaventosa a questa domanda, ma ne sono possibili molte altre. Tuttavia, se ci è vietato fare riferimento all’”occupazione” (secondo il nuovo Denkverbot contemporaneo), se non possiamo nemmeno discutere se il dominio militare israeliano della regione sia apartheid razziale o colonialismo, allora non abbiamo alcuna speranza di comprendere il passato, il presente o il futuro. Molte persone che guardano la carneficina attraverso i media si sentono senza speranza. Ma uno dei motivi per cui sono senza speranza è proprio perché stanno guardando la realtà attraverso i media, vivendo nel mondo sensazionale e transitorio dell’indignazione morale senza speranza. Una morale politica diversa richiede tempo, un modo paziente e coraggioso di imparare e di nominare la realtà, in modo da poter accompagnare la condanna morale con una visione morale.
Mi oppongo alla violenza inflitta da Hamas e non ho alibi da offrirle. Quando lo dico, esprimo chiaramente una posizione morale e politica. Non cado in equivoco quando rifletto su ciò che questa condanna presuppone e implica. Chiunque si unisca a me in questa condanna potrebbe chiedersi se la condanna morale debba basarsi su una certa comprensione di ciò a cui ci si oppone. Si potrebbe dire: no, non ho bisogno di sapere nulla della Palestina o di Hamas per sapere che ciò che hanno fatto è sbagliato e per condannarlo. E se ci si ferma lì, affidandosi alle attuali rappresentazioni mediatiche, senza mai chiedersi se siano effettivamente giuste e utili, se permettano di raccontare la storia, allora si accetta una certa ignoranza e ci si fida del quadro che viene presentato. Dopo tutto, siamo tutti impegnati e non possiamo essere tutti storici o sociologi. È un modo possibile di pensare e di vivere, e le persone con buone intenzioni vivono in questo modo. Ma a quale costo?
E se la nostra morale e la nostra politica non si esaurissero nell’atto di condanna? Se insistessimo nel chiederci quale forma di vita libererebbe la regione da una violenza come questa? E se, oltre a condannare i crimini più efferati, volessimo creare un futuro in cui la violenza di questo tipo abbia fine? È un’aspirazione normativa che va oltre la condanna momentanea. Per realizzarla, dobbiamo conoscere la storia che ha portato alla situazione attuale: la crescita di Hamas come gruppo militante nella devastazione degli anni dopo gli Accordi di Oslo, quando a Gaza le promesse di autogoverno non sono mai state mantenute; la formazione di altri gruppi di palestinesi con tattiche e obiettivi diversi; la storia del popolo palestinese e le sue aspirazioni alla libertà e al diritto all’autodeterminazione politica, alla liberazione dal dominio coloniale e dalla violenza militare e carceraria dilagante. Allora potremmo partecipare alla lotta per una Palestina libera, in cui Hamas verrebbe sciolto o sostituito da gruppi con aspirazioni di convivenza nonviolenta.
Per coloro la cui posizione morale si limita alla sola condanna, comprendere la situazione non è l’obiettivo. Un’indignazione morale di questo tipo è, probabilmente, anti-intellettuale e tutta centrata sul presente. Tuttavia, l’indignazione potrebbe anche spingere una persona a consultare i libri di storia per scoprire come eventi di questo tipo siano potuti accadere e se le condizioni possano cambiare, in modo che un futuro di violenza non sia più possibile. Non si deve pensare che la “contestualizzazione” sia un’attività moralmente problematica, anche se ci sono forme di contestualizzazione che possono essere usate per spostare la colpa o per scagionare dalle responsabilità. Possiamo distinguere tra queste due forme di contestualizzazione? Il fatto che alcuni pensino che contestualizzare una violenza orrenda sminuisca o, peggio, razionalizzi la violenza, non significa che dovremmo arrenderci all’affermazione che tutte le forme di contestualizzazione siano moralmente relativistiche in questo senso. Quando il “Comitato di Solidarietà con la Palestina” di Harvard sostiene che “il regime di apartheid è l’unico da biasimare” per gli attacchi di Hamas, sottoscrive una versione inaccettabile di responsabilità morale. Sembra proprio che per capire come si è arrivati a un evento, o che significato esso abbia, dobbiamo imparare un po’ di storia. Ciò significa che dobbiamo allargare l’obiettivo al di là dello spaventoso momento presente, senza negarne l’orrore, ma rifiutando allo stesso tempo di lasciare che quell’orrore rappresenti tutto l’orrore che c’è da rappresentare, da conoscere e da contrastare.
I media contemporanei, per la maggior parte, non raccontano gli orrori che il popolo palestinese ha vissuto per decenni sotto forma di bombardamenti, attacchi arbitrari, arresti e uccisioni. Se gli orrori degli ultimi giorni assumono per i media un’importanza morale maggiore rispetto agli orrori degli ultimi settant’anni, allora la risposta morale del momento rischia di eclissare la comprensione delle ingiustizie radicali subite dalla Palestina occupata e dai palestinesi sfollati con la forza – così come il disastro umanitario e la perdita di vite umane che si stanno verificando in questo momento a Gaza.
Alcuni temono, a ragione, che qualsiasi contestualizzazione degli atti di violenza commessi da Hamas venga usata per scagionare Hamas, o che la contestualizzazione distolga l’attenzione dall’orrore di ciò che essi hanno fatto. Ma se fosse l’orrore stesso a portarci a contestualizzare? Dove inizia e dove finisce questo orrore? Quando la stampa parla di “guerra” tra Hamas e Israele, offre un quadro di riferimento per comprendere la situazione. In effetti, ha capito la situazione in anticipo. Se Gaza viene intesa come una città occupata, o se ci si riferisce a essa come a una “prigione a cielo aperto”, si dà un’interpretazione diversa. Sembra una mera descrizione, ma il linguaggio limita o facilita ciò che possiamo dire, come possiamo descrivere e cosa possiamo conoscere. Sì, il linguaggio può descrivere, ma acquista il potere di farlo solo se si conforma ai limiti imposti a ciò che è dicibile. Se si decide che non è necessario sapere quanti bambini e adolescenti palestinesi siano stati uccisi in Cisgiordania e a Gaza quest’anno, o nel corso degli anni di occupazione, che questa informazione non è importante per conoscere o valutare gli attacchi a Israele e le uccisioni di israeliani, allora abbiamo deciso che non vogliamo conoscere la storia della violenza, del lutto e dell’indignazione vissuta dai palestinesi. Vogliamo conoscere solo la storia della violenza, del lutto e dell’indignazione vissuta dagli israeliani. Un’amica israeliana, autodefinitasi “antisionista”, scrive online di essere terrorizzata per la sua famiglia e i suoi amici, di aver perso delle persone care. E i nostri cuori dovrebbero stare con lei, come sicuramente fa il mio. È inequivocabilmente terribile quanto è accaduto. Eppure, non c’è un momento in cui la sua esperienza di orrore e di perdita dei suoi amici e della sua famiglia sia immaginata come ciò che un palestinese potrebbe provare dall’altra parte, o che ha provato dopo anni di bombardamenti, incarcerazioni e violenze militari. Anch’io sono un’ebrea che vive un trauma transgenerazionale in seguito alle atrocità commesse contro persone come me. Ma sono state commesse anche contro persone non come me. Non devo identificarmi con un questo volto o con quel nome per riconoscere le atrocità che vedo. O, almeno, io mi sforzo di non farlo.
Alla fine, però, il problema non è semplicemente un fallimento dell’empatia. Perché l’empatia si forma principalmente all’interno di una cornice di senso che permette di realizzare l’identificazione, o di tradurre l’esperienza di un altro nella mia. E se la cornice di senso dominante considera alcune vite meritevoli di lutto più di altre, allora ne consegue che una serie di perdite è più orribile di un’altra serie di perdite. La questione di quali vite valga la pena di piangere è parte integrante della questione di quali vite abbiano valore. E qui il razzismo entra in gioco in modo decisivo. Se i palestinesi sono “animali”, come insiste ad affermare il Ministro della Difesa israeliano, e se gli israeliani ora rappresentano “il popolo ebraico”, come insiste ad affermare Biden (facendo collassare la diaspora ebraica sullo Stato di Israele, come chiedono i reazionari), allora le uniche persone che possono essere addolorate nella scena, le uniche che meritano di essere piante, sono gli israeliani: perché la “guerra” ora messa in scena è quella tra “il popolo ebraico” e “gli animali” che cercano di ucciderlo. Non è certo la prima volta che un gruppo di persone che cerca di liberarsi dalle catene coloniali viene rappresentato come un animale dal colonizzatore. Gli israeliani sono “animali” quando uccidono? Questo inquadramento razzista della violenza contemporanea ricapitola l’opposizione coloniale tra i “civilizzati” e gli “animali” che devono essere eliminati o distrutti per preservare la “civiltà”. Se adottiamo questo quadro nel dichiarare la nostra opposizione morale, ci troviamo implicati in una forma di razzismo che si estende al di là della struttura della vita quotidiana in Palestina. E, rispetto a questo, è sicuramente necessario operare un ripensamento radicale.
Se pensiamo che la condanna morale debba essere un atto chiaro e puntuale, senza alcun riferimento al contesto o alla conoscenza, allora accettiamo inevitabilmente i termini in cui tale condanna viene formulata, il palcoscenico su cui vengono orchestrate le alternative. Nel contesto più recente, accettare questi termini significa ricapitolare forme di razzismo coloniale che fanno parte del problema strutturale da risolvere, della perdurante ingiustizia da superare.
Non possiamo quindi permetterci di distogliere lo sguardo dalla storia dell’ingiustizia in nome di una qualche certezza morale, perché ciò significa rischiare di commettere ulteriori ingiustizie e, a un certo punto, la nostra certezza vacillerà su un terreno non esattamente solido. Perché non possiamo condannare atti moralmente odiosi senza per questo perdere la nostra capacità di pensare, conoscere e giudicare? Sicuramente possiamo e dobbiamo fare entrambe le cose.
Gli atti di violenza a cui assistiamo sui media sono orribili. E, in questo momento di massima attenzione mediatica, la violenza che vediamo è l’unica violenza che conosciamo. Ripeto: abbiamo ragione a deplorare questa violenza e a esprimere il nostro orrore. Sono giorni che ho il voltastomaco. Tutti quelli che conosco vivono nella paura di ciò che la macchina militare israeliana farà dopo, se la retorica genocida di Netanyahu si concretizzerà nell’uccisione di massa dei palestinesi. Mi chiedo se possiamo piangere, senza riserve, le vite perse in Israele e quelle perse a Gaza senza impantanarci in dibattiti sul relativismo e l’equivalenza. Forse la bussola, più ampia, del lutto è al servizio di un ideale più sostanziale di uguaglianza, che riconosce la parità delle vite e fa nascere l’indignazione per il solo fatto che queste vite non avrebbero dovuto essere perse, che i morti meritavano un uguale riconoscimento per le loro esistenze. Come possiamo immaginare una futura uguaglianza dei vivi senza sapere, come ha documentato l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, che le forze israeliane e i coloni hanno ucciso quasi 3800 civili palestinesi dal 2008 in Cisgiordania e a Gaza, anche prima dell’inizio delle azioni attuali? Dov’è il lutto del mondo per loro? Centinaia di bambini palestinesi sono morti da quando Israele ha iniziato le sue azioni militari di “vendetta” contro Hamas, e molti altri moriranno nei giorni e nelle settimane a venire.
Non c’è bisogno di minacciare le nostre posizioni morali per prendersi un po’ di tempo, conoscere la storia della violenza coloniale ed esaminare il linguaggio, le narrazioni e i quadri di riferimento che ora operano, per riferire e spiegare – e interpretare in anticipo – ciò che sta accadendo. Questo tipo di conoscenza è fondamentale, ma non per razionalizzare la violenza esistente o per autorizzarne di future. Il suo scopo è quello di fornire una comprensione della situazione più veritiera di quella che può essere fornita solo da un inquadramento unilaterale del presente. In effetti, ci possono essere altre posizioni di opposizione morale da aggiungere a quelle che abbiamo già accettato, compresa l’opposizione alla violenza militare e poliziesca che satura le vite dei palestinesi nella regione, togliendo loro il diritto di provare il lutto, di conoscere ed esprimere la propria indignazione e solidarietà, e di trovare la propria strada verso un futuro di libertà.
Personalmente, sostengo una politica della nonviolenza, pur sapendo che non può funzionare come un principio assoluto da applicare in ogni occasione. Sostengo che le lotte di liberazione che praticano la nonviolenza contribuiscono a creare il mondo nonviolento in cui tutte e tutti vogliamo vivere. Deploro inequivocabilmente la violenza e allo stesso tempo, come molti altri, voglio partecipare all’immaginazione e alla lotta per una vera uguaglianza e una vera giustizia nella regione: quella che costringerebbe gruppi come Hamas a scomparire, a porre fine all’occupazione e a far fiorire nuove forme di libertà e giustizia politica. Senza uguaglianza e giustizia, senza la fine della violenza di Stato condotta da uno Stato, Israele, che è stato a sua volta fondato sulla violenza, non si può immaginare un futuro, un futuro di vera pace: non, cioè, “pace” come eufemismo per normalizzazione, che significherebbe mantenere le strutture di disuguaglianza, l’assenza di diritti e il razzismo.
Ma un futuro del genere non può realizzarsi senza essere liberi di nominare, descrivere e opporsi a tutta la violenza, compresa quella dello Stato israeliano in tutte le sue forme, e di farlo senza temere la censura, la criminalizzazione o la maliziosa accusa di antisemitismo. Il mondo che vorrei è un mondo che si opponga alla normalizzazione del dominio coloniale e sostenga l’autodeterminazione e la libertà dei palestinesi: un mondo che, di fatto, realizzi i desideri più profondi di tutti gli abitanti di quelle terre di vivere insieme in libertà, nonviolenza, uguaglianza e giustizia. Questa speranza sembra senza dubbio ingenua, persino impossibile, a molti. Tuttavia, alcuni di noi non possono fare a meno di aggrapparsi selvaggiamente a essa, rifiutandosi di credere che le strutture di potere e oppressione che esistono ora esisteranno per sempre. Per questo abbiamo bisogno dei nostri poeti e dei nostri sognatori, dei folli indomiti, di quelli che sanno organizzarsi.
Judith Butler, filosofa statunitense nota a livello mondiale per le sue teorie sul “genere”, ha lavorato negli ultimi anni sulle forme di violenza esistenti nelle nostre società.