A colloquio con i promotori locali della campagna “pagine contro la tortura”, che sostengono: «il carcere non è la soluzione, ma parte del problema»
Il motivo dichiarato della lettera del 20 marzo scorso dei sindaci (di Nomaglio, Andrate, Banchette, Bollengo, Cascinette d’Ivrea, Chiaverano, Fiorano, Ivrea, Montalto Dora, Salerano e Strambino) sulla Festa della Liberazione a Lace di Donato, è lo “sconcerto e perplessità” per la presenza alla manifestazione dello scorso anno di “un gruppo di persone” che, “esponendo il modello in scala 1 a 1 di una cella del 41 bis” chiedeva l’abrogazione di tale regime carcerario.
Già nel numero di varieventuali immediatamente successivo al 25 aprile dello scorso anno avevamo pubblicato una lettera indignata di Giuseppe Laini [qui in pdf il giornale dell’11/5/2016] per questo stesso motivo. Nell’immaginario collettivo, infatti, il regime del 41bis, anche detto “carcere duro”, è quello al quale sono sottoposti i capi mafiosi per impedire loro di esercitare potere e attività criminali anche se rinchiusi in carcere. Diventa automatico perciò il sillogismo per cui chi si pronuncia contro il 41bis è amico dei capi mafiosi.
Ma è proprio così? E’ possibile che “amici dei mafiosi” siano vicini alla Festa della Liberazione? E per quale oscuro motivo interverrebbero a una manifestazione come quella di Lace?
Lo abbiamo chiesto a quel “gruppo di persone”, anarchici del Canavese e sostenitori della campagna “pagine contro la tortura” (promossa dal collettivo milanese “OLGa” – è Ora di Liberarsi dalle Galere), che l’anno scorso hanno esposto il modello di una cella di “carcere duro”.
Allora se non siete mafiosi o loro amici, perché questa campagna contro il 41bis?
Innanzitutto bisogna sapere che questo regime particolare di detenzione è applicato oggi a circa 700 detenuti nelle carceri italiane, e già questo evidenzia che non si tratta di un regime che riguarda solo i capi mafia. Poi non si può tacere che, come peraltro rilevò diversi anni fa il comitato europeo per la prevenzione della tortura, si tratta di “trattamenti inumani e degradanti” perché i detenuti sono privati di tutti i programmi di attività, tagliati completamente dal mondo esterno e la durata prolungata delle restrizioni è verificato che si traduce in alterazione delle facoltà sociali e mentali, spesso irreversibili.
Adottato trent’anni fa come provvedimento temporaneo, di carattere emergenziale, il regime del 41bis si è via via stabilizzato e inasprito ed è attualmente in vigore in 13 sezioni all’interno di carceri sparse in tutt’Italia (Cuneo, Novara, Parma, Opera-Milano, Tolmezzo-Udine, Ascoli Piceno, Viterbo, Secondigliano-Napoli, Terni, Spoleto, L’Aquila, Rebibbia-Roma, Bancali-Sassari).
E’ il punto più rigido della scala del trattamento differenziato che regola il sistema carcerario italiano perché prevede l’isolamento per 23 ore al giorno (e nell’ora d’aria è possibile incontrare solo due o tre altri detenuti), i colloqui con vetri, citofoni o telecamere di un’ora al mese con i soli familiari diretti, ovviamente l’esclusione dai cosiddetti “benefici”, l’impossibilità di partecipare di persona in aula ai processi che vengono celebrati restando in carcere collegati da una cella in “videoconferenza” (con il collegamento gestito a discrezione dei giudici). E, “ciliegina sulla torta”, c’è un limite massimo di tre libri che si possono tenere in cella.
A proposito di quest’ultima restrizione, ho letto di recente di una sentenza della Cassazione che dà ragione al DAP [Dipartimento Amministrazione Penitenziaria ndr] il quale ha stabilito per i soggetti al 41bis l’impossibilità di ricevere libri o riviste attraverso la corrispondenza o le visite di avvocati e parenti.
Sì, si tratta di un provvedimento del DAP del 2011 contro il quale avevano fatto ricorso alcuni detenuti e due o tre magistrati di sorveglianza lo avevano accolto. La Cassazione interpellata dal DAP ha stabilito che qualsiasi materiale stampato si può solo acquistare tramite autorizzazione dell’amministrazione. In questo modo risulterà impossibile ai detenuti leggere libri che non sono più in vendita in libreria, senza contare l’impossibilità di ricevere periodici ai quali si è abbonati: per esempio recentemente ad un detenuto è stato impedito di ricevere il settimanale L’Espresso.
Partendo dalla constatazione che leggere e scrivere rappresenta da sempre una importante forma di resistenza all’annullamento della persona, la campagna “Pagine contro la tortura”, avviata da OLGa nel 2006, non tratta particolarmente di questo aspetto?
Lo slogan della campagna è “Sommergiamo di libri le carceri, evitiamo che si metta in catene la cultura” e, oltre a sollecitare librerie, case editrici, di appassionati/e della lettura, scrittori e scrittrici, viaggiatori tra le pagine a inviare mail e cartoline di protesta al DAP (Largo Luigi Daga n. 2 – 00164 Roma, indirizzo mail [email protected]) per richiedere il ritiro del vessatorio divieto di ricevere libri, propone di spedire cataloghi, libri, riviste, ecc, presso le biblioteche delle carceri in cui sono presenti le sezioni a 41bis.
Ma il 41 bis è solo la punta dell’iceberg perché le norme di natura emergenziale, le restrizioni, con nomi e forme diverse, col passare del tempo, si estendono alle sezioni di “Alta Sicurezza” e in quelle “comuni”. Lo dimostra l’uso massiccio del 14-bis dell’Ordinamento Penitenziario (come è accaduto dopo i fatti di ottobre a Ivrea ai detenuti trasferiti) con l’isolamento che può essere prorogato per mesi o la richiesta di “collaborazione” quale condizione per poter accedere a un minimo di possibilità “trattamentali” (socialità, scuola, lavoro), fino alla limitazione del numero di libri o vestiti che è possibile tenere in cella. E che si stiano estendendo misure che finora erano previste solo per i sottoposti al 41bis, ci viene confermato proprio in questi giorni dall’estensione della pratica della videoconferenza per la partecipazione a processi anche per reati minori (presente nel DDL di riforma del processo penale recentemente approvato dal Senato) o all’udienza di convalida dell’espulsione per gli immigrati trattenuti negli ex CIE, oggi CPR, come previsto dal decreto Minniti-Orlando.
Conoscete però anche voi la “richiesta di sicurezza” che avanza (e viene ampiamente e costantemente alimentata da molti media e sciacalli della politica) la “opinione pubblica”. Per quanto corretto possa essere il vostro ragionamento, l’accento sul 41bis non rischia di diventare fuorviante e dar luogo a facili accuse di essere “utili idioti” della mafia?
Una società che sottostà al ricatto della perenne emergenza, alimentata da banalizzazioni ed allarmismi, si rende consenziente di vessazioni e torture, e il 41bis rappresenta la codificazione scritta di queste. Siamo nemici di ogni forma di prevaricazione e sfruttamento. Per questo abbiamo manifestato periodicamente davanti al carcere di Ivrea (dopo i fatti dell’ottobre scorso) e fatto un presidio davanti a quello di Novara nel febbraio scorso. Il carcere non è la soluzione, ma parte del problema. E questi contenuti riteniamo che stiano a pieno titolo in una Festa della Liberazione, mentre consideriamo completamente fuoriluogo l’atteggiamento autoritario con cui alcune istituzioni vorrebbero arrogarsi il diritto di allontanare individualità e gruppi di antifascisti da tale ricorrenza.
a cura di ƒz