È una tattica da manuale: attaccare da diverse angolazioni e creare un’atmosfera di caos e confusione”. Geraldine Wong Sak Hoi 22 marzo 2022 https://www.swissinfo.ch
Settimane prima che i missili russi iniziassero a colpire le città ucraine, il Cremlino ha rilasciato una serie di dichiarazioni sul governo di Kiev. Secondo la televisione di Stato russa, le forze ucraine stavano perpetrando un genocidio nelle regioni separatiste di Donetsk e Luhansk, lungo il confine con la Russia. Per meglio dipingere l’Ucraina come Paese aggressore, sui social network hanno iniziato a spuntare video falsi sulle presunte vittime.
Dopo l’inizio dell’invasione, l’offensiva della disinformazione è passata al livello successivo: diversi account filorussi sull’app di messaggistica privata Telegram hanno iniziato a diffondere resoconti falsi secondo cui il presidente ucraino Volodymyr Zelensky avrebbe lasciato il Paese.
A dieci giorni dall’inizio del conflitto, poi, i legislatori russi hanno approvato una legge contro le “fake news” che obbligava i media indipendenti e i reporter stranieri presenti in Russia che non seguivano la linea adottata dal Cremlino a sospendere il proprio lavoro.
“È una tattica da manuale: attaccare da diverse angolazioni [e] creare un’atmosfera di caos e confusione”, ha dichiarato Emma Baumhofer, esperta di digitale della fondazione svizzera per la pace Swisspeace.
La propaganda è da sempre strumento di guerra, perché i vari contendenti, oltre alle battaglie, cercano di aggiudicarsi anche il cuore e la mente della gente. Oggi però, con i social media, Internet e gli smartphone, trasformare le informazioni in armi è diventato più facile e veloce che mai, con una portata senza precedenti.
La disinformazione che si diffonde prima online e poi anche offline genera “un ambiente informativo complesso”, come lo definisce Baumhofer, che rende difficile distinguere la verità dalle bugie.
Una crisi che va accentuandosi dall’Ucraina all’Africa Come i russi, anche gli ucraini hanno contribuito alla guerra dell’informazione con la propria campagna propagandistica. Fonti ufficiali, per esempio, hanno dichiarato che il numero di vittime tra i soldati russi è molto più alto sia di quanto stimato dall’intelligence statunitense, sia delle cifre dichiarate dal Cremlino. Sono persino arrivati a ostentare presunti prigionieri di guerra di fronte alla stampa.
In una guerra, è normale che le parti coinvolte cerchino di enfatizzare i propri successi per motivare le truppe, sottolinea Julia Hofstetter, del think-thank svizzero Foraus. “Spesso, nei conflitti, la disinformazione digitale viene utilizzata per ottenere il sostegno della popolazione, destabilizzare il nemico e ostacolare il processo di pace”, spiega Hofstetter, specializzata nella dimensione cibernetica dei conflitti e nella promozione della pace in digitale.
Talvolta, alla guerra dell’informazione partecipano anche civili, attori non statali e persino altri governi. In Ucraina, cittadini e cittadine qualunque hanno pubblicato sui social media video di cui è difficile verificare la veridicità, in cui si vedono soldati russi fatti prigionieri. Gruppi di hacker volontari hanno attaccato i siti web del governo russo e dei mass media statali, nel tentativo di danneggiare la macchina propagandistica russa. Addirittura, dice Baumhofer, gli Stati Uniti hanno pubblicato alcuni dei propri dati di intelligence per minare le dichiarazioni russe precedenti all’invasione.
Simili interferenze nei conflitti esteri non sono certo una novità, almeno per la Russia. Per anni, il Cremlino ha usato molte delle strategie di disinformazione applicate all’Ucraina anche altrove, spiega Baumhofer. Un esempio? La Repubblica Centrafricana. I ricercatori dell’Istituto per la pace degli Stati Uniti (USIP) hanno scoperto che l’aumento delle violenze in seguito a elezioni molto contestate nel Paese, alla fine del 2020, “ha coinciso con la diffusione di fake news e propaganda che si pensa abbiano avuto origine in Russia e in Francia”.
Secondo Nicolas Boissez, responsabile delle comunicazioni della Fondazione Hirondelle, una ONG svizzera, la Russia vorrebbe ampliare la propria influenza nello Stato africano che, nell’ultimo anno, ha registrato un’escalation dei combattimenti tra forze governative e gruppi armati. Per Boissez, la disinformazione è diventata uno strumento fondamentale in una situazione politica e di sicurezza di grande tensione.
Contrattaccare con i fatti
L’impatto della disinformazione su chi vive nel Paese è “significativo [e] accentua la crisi della sicurezza locale, indebolendo ulteriormente l’operato degli attori coinvolti nella promozione della pace”, scrive la Fondazione Hirondelle.
Da oltre 25 anni l’ONG di Losanna supporta i media indipendenti e forma i giornalisti e le giornaliste dei Paesi colpiti da una crisi, con l’idea che un giornalismo basato sui fatti possa contribuire alla pace. Il suo operato in Repubblica Centrafricana dimostra almeno in parte ciò che si può fare per combattere la disinformazione.
“Il nostro lavoro consiste fondamentalmente nel fornire alla gente i fatti, spiegati nella maniera più semplice possibile [e] in un linguaggio comprensibile”, dice Boissez. “Ci concentriamo sulle informazioni più rilevanti per la loro quotidianità, in modo da instaurare un legame di fiducia”. Due anni fa, la ONG ha lanciato una campagna contro la disinformazione con la collaborazione di Radio Ndeke Luka (RNL), fondata nel 2000. L’iniziativa ha comportato l’istituzione di un’unità di verifica dei fatti nella stazione radio, ormai diventata uno dei mezzi di comunicazione più popolari del Paese.
Il risultato delle verifiche effettuate viene trasmesso sia su RNL sia su altre stazioni partner, oltre che sul web e sui social media, in modo da raggiungere quante più persone possibile.
Le verifiche fattuali costituiscono un fattore importante anche nella guerra in Ucraina. Prima ancora dell’inizio delle ostilità, giornalisti, giornaliste e organizzazioni della società civile come Bellingcat hanno utilizzato strumenti di intelligence open source online (OSINT) per confutare immagini e video che ritraevano le presunte aggressioni ucraine, rivelando enormi falle nei pretesti avanzati dai russi per l’invasione. Lo stesso presidente Zelensky ha condiviso video filmati tramite smartphone in cui respingeva le accuse del Cremlino.
Verificare i fatti e sostenere mezzi di informazione indipendenti, tuttavia, non è l’unico modo per combattere la disinformazione. “Presentare dei fatti concreti spesso non è sufficiente a cambiare la mentalità della gente”, dice
Baumhofer. “Bisogna andare alla radice di ciò che la rende vulnerabile alla disinformazione”.
Nella Repubblica Centrafricana, Hirondelle ha ingaggiato leader di pensiero in campi come l’arte e la musica perché partecipassero a eventi pensati per richiamare l’attenzione sulle “fake news” e spiegare come evitare la diffusione di informazioni false.
Misinformation o disinformation?
Secondo il glossario creato dal network no-profit First Draft, “disinformation” sta a indicare informazioni false create o condivise con il preciso intento di arrecare danno. “misinformation”, invece, indica informazioni errate diffuse in buona fede, come nel caso di notizie condivise inavvertitamente da persone che non sanno che si tratta di falsità.
Sia Hofstetter sia Baumhofer, però, riconoscono la necessità di un alfabetismo digitale, in particolare tra i popoli soggetti a oscuramento delle informazioni. In Russia, dove il governo ha limitato gli accessi a Twitter e Facebook, centinaia di migliaia di persone hanno iniziato a usare delle VPN, reti virtuali private, per cercare fonti mediatiche alternative. Tuttavia, la maggior parte della gente non è a conoscenza di questa possibilità o di come funziona, afferma Baumhofer.
Le aziende tecnologiche devono fare meglio
Il cambiamento più radicale, poi, deve avvenire sui social media, che svolgono un ruolo spropositato nel disseminare sia le “fake news” sia i fatti assodati.
I moderatori e le moderatrici delle varie piattaforme sono particolarmente in allerta per questa guerra, forse anche a causa dell’attenzione ricevuta dai media internazionali, ipotizza Hofstetter di Foraus. Google, Twitter e Meta, la casa madre di Facebook, hanno subito bloccato Russia Today e Sputnik, due emittenti sponsorizzate dal governo russo a cui è stato impedito di trasmettere nell’Unione Europea non appena sono iniziate le ostilità. Twitter e Facebook hanno anche sospeso o rimosso gli account che ne violavano le condizioni d’uso. Tuttavia, si tratta di un’operazione senza precedenti nel settore. Nella maggior parte dei conflitti, dice Hofstetter, le aziende tecnologiche non hanno fatto molto per fermare incitamenti all’odio e disinformazione, in parte anche perché non sono entusiaste all’idea di impiegare risorse per tenere sotto controllo contenuti in lingue locali di Paesi che non sono considerati mercati rilevanti.
Nei casi peggiori, la mancata risposta delle grandi aziende tecnologiche ha avuto conseguenze letali. Secondo un report indipendente, Facebook avrebbe creato un “ambiente favorevole” alle violenze scatenatesi contro il popolo Rohingya in Myanmar nel 2017, lasciando che gli incitamenti all’odio verso la comunità etnica proliferassero incontrollati sulle sue bacheche.
“Le piattaforme social contribuiscono alla creazione di conflitti per il modo stesso in cui sono costruite”, ha spiegato Baumhofer. “La tendenza, infatti, è di premiare reazioni rabbiose e comportamenti offensivi, perché sono quelli che ottengono più seguito”.
Baumhofer suggerisce che chi opera per la promozione della pace dovrebbe lavorare alle piattaforme “per renderle luoghi di confronto più pacifici”. L’esperienza nella mediazione e nel trovare un terreno comune tra popolazioni divise, per esempio, potrebbe venire sfruttata per apportare cambiamenti radicali a questi siti, di modo che mettano in evidenza i punti in comune tra gli utenti anziché polarizzarli.
Tecnologie per la pace
Secondo Julia Hofstetter, del think-thank svizzero Foraus, l’impiego delle tecnologie digitali per promuovere la pace è un campo molto promettente: varie organizzazioni della società civile stanno utilizzando l’intelligence open-source (OSINT) per sfatare le informazioni false, mentre mediatori e mediatrici fanno affidamento sulle piattaforme di crowdsourcing per rendere la promozione della pace più inclusiva.
Il potenziale maggiore, spiega, sta nel conferire più potere alle singole comunità, dando alla gente la possibilità di organizzarsi dal basso, documentare i crimini di guerra e condividere le proprie storie con il mondo intero solo usando uno smartphone.
Come mostrato dai ricercatori e ricercatrici che analizzano i video relativi alla guerra siriana, la tecnologia esistente consente di verificare i materiali generati dagli utenti e di archiviarli nella speranza di poter avviare dei processi per crimini di guerra in un prossimo futuro, così da dare alle vittime l’opportunità di ottenere giustizia.
La morale è che le aziende tecnologiche dovrebbero essere sollecitate a fare di più in tutte le situazioni di conflitto. Dopotutto, la guerra in Ucraina non è certo la loro prima esperienza di diffusione di informazioni false in un contesto bellico.
“Ogni guerra è una situazione a sé”, dice Baumhofer, “ma avremmo potuto prepararci meglio”.