Un sacco di tempo, molta vita e belle facce
La domanda “Come faremmo senza lo Zac? ritorna spesso tra amici e tra colleghi, e non è nemmeno davvero retorica: ogni tanto ce lo chiediamo sul serio, e cerchiamo di ricordarci come si faceva prima, prima dello Zac.
La verità è che non lo sappiamo.
Non lo sappiamo perché lì è una smorfia di sonno e due parole davanti al primo caffè la mattina, lì è spesso il pranzo – quando anche se sei solo qualcuno lo incontri – ma è anche una stanza dove discutere il pomeriggio quando i bidelli ti cacciano da scuola, e poi politica, teatro, cinema, socialità, progetti. Un sacco di tempo e molta vita, e sempre con delle belle facce vicino. Mica poco, di ‘sti tempi poi.
C’è dell’altro.
Sabato mattina. Mentre sorseggi il caffè il mercato si forma: verdura, miele, marmellate, oli essenziali, formaggi, salumi, pane. Guardare un luogo che prende vita è uno spettacolo impagabile: ciascuno si muove con un’idea in testa, tutto comincia a funzionare con lentezza e una sorta di gioia esistenziale.
E’ allora che vedi che cosa sarebbe questo luogo senza lo Zac: sarebbe un rifugio per persone tristi, sarebbe sporco (dalla sera alla mattina quante bottiglie vuote, e cicche, e vetri rotti da spazzare…), sarebbe muto, e freddo, forse tana di noia, non-luogo, occasione perduta.
Così, invece, è un posto in cui arrivare e poi tornare.
Questa è la premessa, ma c’è dell’altro.
C’è che proprio un sabato all’ora di pranzo, davanti allo Zac! nel pieno della vita e della confusione – persone che mangiano, mercato che smobilita, saluti affettuosi e abbracci, chiacchiere e sbirciatina (ci sarà posto?) – una bicicletta scompare così: un battito di ciglia e non c’è più. La bicicletta – elettrica – era bella, nuova di un verde brillante, importante, unico mezzo di locomozione del proprietario, 92 anni-quasi 93 ben portati, che pure stava per legarla ma non ha fatto in tempo: s’è girato a salutare e tac!, volatilizzata.
Quando rubano qualcosa la sensazione è disarmante, ti chiedi “proprio a me, perché?”, qualcosa di ancestrale succede nella testa, come un lontano ricordo di violenza senza scampo. Sei al centro di qualcosa che non hai scelto, forse gli altri, intorno, s’aspettano una parola da te e tu non hai niente da dire, solo quel “perché” che ti frulla nella testa.
Grazie al cielo lo Zac! non è solo un luogo ma una comunità fatta di belle persone, che mica stanno a meditare se convenga oppure no, se il rischio valga la pena: quando c’è da muoversi si muovono.
E perciò tutto succede in fretta e in perfetta sequenza, stile film d’azione: Lucia vede la bicicletta, ma il ladruncolo “è mia”, nega, e sparisce. Qualche ora dopo Martina, che ha appena staccato dal lavoro, chiama dalla stazione: “è qui la bicicletta, stanno per caricarla sul treno che va ad Aosta”. Ecco quindi che prima Giulio, Stefano e Nick, poi Filippo e Marco di rincalzo, corrono ai binari – perfino sui binari a un certo punto – e bloccano il ragazzotto, con il quale comincia un tira e molla: “lasciala, non è tua, ti hanno visto tutti”, “è mia”, “no”, “sì”, “lasciala, non si possono rubare le biciclette!”. Alla fine arriva il treno, che il ragazzo – mica scemo – prende al volo. La bicicletta è recuperata.
E’ sera, sta piovendo e i soci dello Zac! sono in riunione. La bicicletta torna a casa sua, caricata in macchina e via. Non c’è nemmeno tempo per un grazie, un applauso, un encomio, un abbraccio.
L’abbraccio, quello arriverà, ma non è abbastanza.
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