Visti da noi
Grande successo per l’opera di Favetto, presentata al Teatro Giacosa
La vita come forma di spettacolo teatrale, persone comuni in luogo di personaggi e attori, parole che raccontano storie, empatia, musica, equilibrio degli intrecci, e soprattutto il sapore della realtà denudata, spoglia di fronzoli, coinvolgente e toccante come solo la verità e la sincerità del vissuto possono trasmettere.
Ventidue storie che provengono dall’humus eporediese, vicende umane uscite dalle quinte per regalarsi alla nostra cittadina, per alzarne il sipario di privata e tradizionale riservatezza.
Gian Luca Favetto è l’autore di questo spettacolo avvincente di cui Laura Curino ha curato la regia. .Favetto, scrittore, giornalista e drammaturgo, ne ha formulato l’idea, ha stanato i personaggi, li ha intervistati e ha dato forma letteraria al racconto delle loro vite, ne ha sollecitato l’espressione dei sentimenti profondi, esaltato le qualità nascoste, rivelato le venature ironiche, la capacità di divertire e anche di emozionare attraverso il difficile e coraggioso racconto della sofferenza.
Sì perché non c’è vita senza fragilità e senza dolore così come non ci sono sorrisi senza lacrime. Sul palco, in primo piano, Gian Luca Favetto ha coordinato gli interventi, ha annunciato i protagonisti, li ha invitati al microfono, ognuno con il foglio in mano della sua personale biografia. I protagonisti stavano seduti in scena a gruppetti di cinque o sei per volta, piuttosto trepidanti nell’emozione dell’esordio perché il palcoscenico è un’ebbrezza del cuore, soprattutto quando lo si calca per la prima volta. Di lato, nel cono delle luci, il chitarrista Loris Deval e il fisarmonicista Massimo Marino a svolgere il compito magistrale della tessitura musicale, a confezionare la colonna sonora dello spettacolo.
Ventidue i protagonisti, un numero omaggio alla Lettera 22, macchina per scrivere della Olivetti, e forse anche all’anno 2022 che vede Ivrea onorarsi del titolo di capitale italiana del libro. Sì, perché ogni vita è come un libro, questa volta come un libro da ascoltare e vedere, un libro in cui riconoscere e riconoscersi perché noi siamo gli altri e gli altri sono noi, esseri finiti ma capaci di spiccare, anche attraverso l’arte del teatro, il volo creativo verso l’infinito. E allora assorbiamole queste storie, facciamo risuonare le loro parole nella nostra attenzione, vediamo questi volti senza trucco e belletti, gustiamoci l’eleganza del loro essere, al contempo, persone comuni e straordinarie.
C’è chi da bambino voleva fare il prete e poi ha fatto il geometra, è stato programmatore all’Olivetti per 35 anni, ha amato la tecnologia ma anche temuto i suoi effetti di isolamento, interrogandosi sulla scelta tra il fare “comodità” o “comunità”; c’è chi sognava di diventare fotografo affermato perché sapeva che la fotografia sta nell’occhio e nella volontà di vedere e oggi si è realizzato come professionista e specialista di immagini sul tema del cibo; c’è chi è vissuto sempre nella stessa casa al Crist, lavorato in un negozio di scarpe, giocato al calcio e letto tutti i romanzi gialli che poteva, sognando di fare il poliziotto, senza riuscirci per colpa di qualche infortunio fisico. “Non sono un viaggiatore” dichiara. “L’unica cosa che può salvarci è il rapporto umano”.
C’è la diciannovenne che pratica il kajak, vuole studiare medicina e considera Ivrea come un paesone in cui si sta bene, ma sogna l’America con la fiducia che il mondo esisterà ancora quando lei ci arriverà. C’è chi, combattuto tra l’ardire e la timidezza, corre in montagna e si dedica allo sport come prospettiva di vita. Lo sport che calma l’inquietudine, lo sci per disegnare linee sulla neve, lo sport che apre il passo alle riflessioni filosofiche: “L’importante è cogliere la realtà e poi attraversarla” dice.
C’è il “travet” operatore di cabina da trent’anni, che fa il proiezionista ma non vede i film. Nella cabina preferisce leggere e sognare la natura. “Sono un bugianèn” dichiara “E il mondo lo conosco solo attraverso i libri.” C’è la ragazza che voleva fare la ballerina e poi ha fatto l’impiegata, si è fidanzata a Milano e ha cambiato sette lavori. “Nel tempo libero, da Milano venivo a fare lo shopping a Ivrea. Ho questa città nell’anima e il mio lui, se mi voleva veramente, insieme a me, doveva prendersi anche Ivrea.”.
C’è il professore che insegna greco e latino da 30 anni e ricorda la sua infanzia in cui aveva pianificato tragicomicamente la sua fuga dall’asilo. Anche lui voleva fare il prete, ma, ambiziosamente: “Solo per diventare papa”, ammicca con la voce rotonda e baritonale. Da giovane leggeva un libro al giorno ma, mandandolo a scuola, il padre gli dice: “Alla prima insufficienza che prendi, spendo 13mila lire (il costo di una carriola da muratore)”. Il pubblico ride. Il professore continua: “Vedo la cultura come un presidio verso la libertà. La cultura insegna ad essere liberi, lasciando liberi gli altri”. Fioccano gli applausi.
C’è chi si presenta come “apolide”, titolo ribadito per scritto in un documento. E’ un ragazzo afghano, un emigrato che proviene dall’Iran. La sua odissea passa per la Grecia, la Turchia, la Finlandia, l’Italia attraverso la città di Foggia per poi approdare finalmente a Ivrea, al castello di Albiano. Lui ama la nostra lingua e legge i libri di Rumi. Spesso passeggia verso il lago Sirio perché il camminare lo libera dal dolore. “Con tutto quello che ho passato, ditemi voi quanti anni ho” domanda guardando il pubblico, poi chiude con le parole del poeta: “Non piangere, tutto ciò che viene perso ritorna sotto altra forma”
C’è la signora che ha perso il marito e poi il figlio maschio e da allora, ogni sera, ne mantiene vivo il ricordo scrivendogli una lettera, reinventandosi la vita con lui, scoprendo nuove vite senza mai più trovare quella di prima.
E ci sono tutte le altre storie, la direttrice della biblioteca che ama cucinare e l’architetta che ha girato il mondo, l’impiegato che lascia l’Olivetti e si laurea in economia politica a Milano, sposa il carnevale e il rugby come avventure fuori dagli schemi, il rugby come sinonimo di accoglienza e accessibilità. Riflettendo sulle possibilità di una nuova vita, gli piacerebbe diventare un chitarrista.
C’è la presidente di associazione culturale che ha fatto la libraia e che ha cominciato a leggere prima ancora di saperlo fare. “Il libro è un conforto. Io volevo fare la maestra e poi l’attrice e poi la lettrice. I libri sono come i miei amici.” E ancora ecco l’impiegata Olivetti che addirittura si laurea in medicina e in neurologia con specializzazione in psichiatra infantile. Anche lei perde un figlio bambino e sperimenta l’incolmabile vuoto di questa tragedia. Poi va in Africa per aiutare la gente che soffre e scopre che è l”Africa ad aiutare lei. Ed ecco il ragazzo nero, giovanissimo immigrato che vuole imparare bene l’italiano e, già per come legge la sua biografia, ti fa salire la voglia di abbracciarlo. Racconta che va al cimitero di Ivrea a bagnare i fiori sulla tomba del padrone presso il cui negozio ha trovato lavoro e bagna anche i fiori sulla tomba di Olivetti, di cui ha appreso la grande importanza. I suoi amici gli dicono che lui è bravo ed è per questo che trova brave persone che lo aiutano. “No” risponde lui “Voi siete bravi, io sto solo provando”.
Questi fantastici protagonisti del popolo si avvicendano al microfono, le loro storie sono diademi di parole; in alcuni casi la commozione prende il sopravvento, soffoca le parole, oppure la lettura smarrisce una riga del testo. Sono cose così vere che a teatro non si vedono mai. Per questo incantano e strappano applausi.
A metà spettacolo, c’è l’intermezzo di un rinfresco preparato all’esterno del teatro dal titolare di una nota pizzeria cittadina. E’ una trovata straordinaria, un vociare di commenti entusiasti, un convivio di piccoli calici alzati nei brindisi. Il rientro al Giacosa e felice e consente di seguire altre storie in silenziosa ammirazione. C’è anche quella dell’infermiera che, avendo appena contratto il covid, non può essere presente. Favetto la contatta in diretta per telefono, la tiene in collegamento facendole ascoltare la sua biografia letta da lui. Si evoca il covid dell’inizio pandemia, quando le morti si susseguivano nell’ospedale e il personale medico si aggirava impotente tra i letti dei reparti, le bianche tute goffe come quelle degli astronauti.
Adesso arriva il turno di un avvocato che svolge la professione da 47 anni, quello della violoncellista che ha girato l’Europa ma anche fatto la postina e la baby sitter e che ci ricorda quanto sia necessario mettere l’amore in tutto ciò che si fa altrimenti non ne vale la pena. Ed ecco il laureato in chimica con la passione della musica e della scienza che accenna due note di una canzone. E poi si prende la scena la vezzosa mugnaia del carnevale 2010, una storia a cavallo tra il lavoro da modella e l’impiego nell’azienda di famiglia fino alla grande ribalta della festa cittadina per eccellenza, quella del carnevale eporediese, con il ruolo più ambito di ‘eroina del popolo, una delle esperienze più emozionanti della sua vita. Infine, nel vestito della prima gioventù, ecco l’ultima storia. E’ una ragazza che dice: “Ho solo 18 anni, non ho molto da raccontare” ma la sua voce è scandita, descrive il piacere che prova nel fare e scoprire sempre cose nuove, il suo desiderio di diventare una ricercatrice di storia, ma soprattutto quello di imparare ad ascoltare gli altri per formarsi, crescere e affrontare le sue fragilità.
Questa ragazza è l’ultimo inchino individuale verso il pubblico. Lo spettacolo volge al termine. Gian Luca chiosa citando il finale più bello della letteratura italiana, una specie di sussurro, che sa di comandamento, tratto dalle Città invisibili” di Italo Calvino: ”Riconoscere, in mezzo all’inferno, chi inferno non è, e farlo durare e dargli spazio”.
Siamo ai saluti finali e allo scroscio degli applausi. Il gruppo dei protagonisti si compatta sul palco; i fotografi scattano le foto di rito.
Questo spettacolo, così intenso, mi fa ricordare qualcosa che si era perso nella mia memoria. E’ vero, a me piace il cinema, con la sua fitta esposizione di immagini, ma il teatro le immagini te le lascia pensare, lascia la tua mente libera di crearle. Esse si attaccano ai protagonisti sul palcoscenico, li adornano con i colori che ognuno di noi preferisce.
L’ultima immagine non pensata, che raccolgo dal vivo, è quella di Gian Luca Favetto che porge un fiore rosso alla Mugnaia. Potrebbe trattarsi di una rosa oppure di un garofano, non saprei, ma mentre sento il calore degli applausi, quel fiore è il suggello di uno spettacolo ricco di ragguardevole, umana bellezza.
Pierangelo Scala