Un incontro a Città del Messico a tre anni dalla “Reforma Laboral” con la partecipazione di Federico Bellono in rappresentanza della CGIL. «Cresce un nuovo sindacalismo di classe, in Messico, punto strategico dei processi di globalizzazione, che parla anche a noi»
A Bellono, della CGIL di Torino, abbiamo chiesto di raccontarci cosa succede tra i lavoratori di quel grande e difficilissimo paese e come il loro processo di sindacalizzazione riguardi anche noi.
Cominciamo con inquadrare nella realtà messicana l’incontro al quale hai partecipato. Una realtà notoriamente difficile e particolarmente violenta.
Il Messico, che ha una popolazione di 130 milioni di abitanti, è il paese dei Cartelli dei Narcos, che controllano “militarmente” e ferocemente buona parte del paese e che dalla droga hanno allargato i loro interessi al traffico di migranti verso gli Usa: più in generale controllano una parte importante dell’economia, con un sistema di corruzione che è arrivato ai massimi vertici dello Stato.
Dal 2006 vi sono stati almeno 350mila morti per la violenza diffusa, oltre a centomila scomparsi. L’anno scorso, la media è stata di 94 morti al giorno.
Il Messico è anche la nazione in cui vengono uccisi più giornalisti.
Cos’è e come nasce la “Reforma Laboral” messicana? Di cosa si tratta?
In Messico dal 2019 è stata introdotta una “Reforma laboral” che, insieme al T- Mec, cioè il nuovo accordo di libero scambio tra Canada, Usa e Messico, prevede una maggior attenzione ai diritti dei lavoratori e un nuovo modello di rappresentanza.
Per capire il senso dell’operazione occorre non perdere di vista il contesto.
Le ultime elezioni sono state vinte da Andrés Manuel Lopéz Obrador, definito dai media un populista di sinistra, con il suo movimento politico Morena, dopo un dominio pressoché centenario del Pri (Partido revolucionario istitucional), con una breve parentesi del Pan (di destra).
Il paese ha una struttura economica fortemente integrata con Usa e Canada, verso cui è destinato oltre l’80% della produzione industriale, a partire dall’automotive: tutte i principali costruttori di auto – asiatici ed europei compresi – hanno impiantato qui grandi fabbriche , soprattutto vicino al confine con gli Stati Uniti, la cosiddetta Frontera.
Il Messico è il quinto esportatore mondiale di componenti per l’automotive, e il settimo produttore di auto, subito dietro la Germania, con oltre 3 milioni di veicoli (4 volte l’Italia!). Ma soprattutto i salari messicani – i più bassi dell’America latina – sono tra un decimo e un tredicesimo di quelli degli Stati Uniti. Inoltre il 40% del lavoro è “informale”, cioè in nero.
Per capire cos’è successo in questi anni occorre ricordare che Trump ha vinto anche con la promessa di riportare negli Usa lavoro dal Messico, e una delle strade è alzare gli stipendi degli operai messicani: per questo si è generato un circolo virtuoso tra Trump, i democratici, i sindacati statunitensi e il “nuovo Messico” di Obrador, il quale aveva messo al centro del proprio programma proprio la crescita dei diritti e dei salari delle lavoratrici e dei lavoratori messicani, puntando in questo modo a ridurre anche l’emigrazione verso gli Usa, altro tema caro a Trump.
Che aveva vinto le elezioni americane anche sbandierando il muro alla frontiera col Messico.
In realtà oggi il grosso dei migranti che cerca di entrare negli Usa – spesso con vere e proprie carovane di migliaia di persone – attraversa il Messico provenendo dagli altri paesi del centroamerica.
Ma veniamo alla “Reforma Laboral”.
In Messico, cosi come è esistito finora una sorta di partito unico, così è stato a livello sindacale con la Ctm (Central de Trabajadores de Mexico), moderata, filopadronale e spesso corrotta, se non addirittura infiltrata dai Cartelli. Con qualche storica eccezione, come i portuali e i Mineros, il cui leader, prima della vittoria di Obrador, era in esilio in Canada e oggi presiede la Comission laboral.
Questo ha fatto sì che siano stati messi in discussione i cosiddetti contratti di “protezione”, che spesso i lavoratori neanche conoscono e sono fatti a protezione, appunto, degli interessi padronali.
Per cambiare questo sistema sono nati sindacati indipendenti, sostenuti a livello internazionale, soprattutto da IndustriAll e dall’Afl-Cio americana: questo processo è partito in mezzo a mille difficoltà – dalla violenza ai licenziamenti – e un caso emblematico ha riguardato la Teksid (gruppo Fiat- Chrysler), dove c’e stato un conflitto durato 8 anni, con licenziamenti di massa e violenze, un presidio di 4 anni ai cancelli e dove la vittoria alle elezioni dei Mineros non è stata riconosciuta fino all’arrivo della Reforma laboral, grazie alla quale di recente la verrenza è stata positivamente risolta: la titolarità contrattuale è passata dalla Ctm ai Mineros, e i lavoratori a suo tempo licenziati sono stati riassunti e indennizzati.
Come ha fatto questa riforma a determinare tali risultati?
La Reforma laboral prevede in sostanza la certificazione – entro metà 2023 – dei contratti aziendali attraverso il voto dei lavoratori. Se il contratto viene bocciato la titolarità a contrattarne uno nuovo passa da chi l’aveva contrattato fino a quel momento – in genere la Ctm – a chi l’ha contestato, quasi sempre sindacati indipendenti.
A questo meccanismo se ne aggiunge un altro, frutto del T-Mec, detto “risposta rapida”: se viene contestato un comportamento antisindacale e lesivo dei diritti del lavoratori, esiste un organismo “abbastanza” indipendente che entro 3 mesi deve stabilirne la fondatezza. In tal caso se l’azienda non si adegua ricade in una serie di sanzioni da parte di Usa e Canada per le attività di esportazione.
Questo inedito contesto ha dato una spinta enorme ad una nuova sindacalizzazione, sostenuta materialmente da Centri di solidarietà come quello – il Solidarity Center di Città del Messico – che ha organizzato l’evento dei giorni scorsi, finanziati soprattutto dai sindacati americani. Non secondario è il ruolo delle Università: il Centro laboral dell’Università di Queretaro, inaugurato all’inizio del convegno, ha tra i promotori l’analogo Labour Center dell’Ucla di Los Angeles, la più grande Università della California.
Negli ultimi mesi di grande rilevanza è stato il referendum che ha decretato la bocciatura del contratto aziendale tra gli 8 mila lavoratori della General Motors di Silao. In questo caso nei mesi precedenti la Gm ha subito sanzioni per un miliardo di dollari!
Un combinato di interessi e attività che sta dando i suoi frutti e fa ben sperare per il futuro dei lavoratori messicani.
Ovviamente i problemi sono e restano enormi: i sindacati indipendenti nascono in modo disordinato, nelle aziende dove si fanno i referendum non hanno agibilità – infatti dov’è possibile si ricorre a osservatori esterni, addirittura internazionali, come nel caso della Gm -, le forme di coordinamento sono ancora embrionali, crescono nuove esperienze di militanza ma senza forti sponde politiche a livelli locale.
Ma soprattutto il 2023 è dietro l’angolo e ad oggi, su migliaia di potenziali referendum, se ne sono tenuti alcune centinaia.
Quel che colpisce però è l’entusiasmo che accompagna questo processo, l’atteggiamento positivo di un nuovo sindacalismo di classe, in un punto strategico dei processi di globalizzazione, che parla anche a noi.
Ad ogni latitudine un sindacato senza democrazia è destinato a burocratizzarsi e a cercare legittimazione più dai poteri economici e istituzionali che non dai lavoratori che dovrebbe rappresentare.
Ed è fondamentale, per difendere i diritti dei lavoratori dei paesi più ricchi, sostenere le lotte e migliorare le condizioni di quelli che vivono nei paesi dove, in questi ultimi decenni, si è spostata una parte importante delle produzione industriale, ma anche di molti servizi, come ad esempio i call center.
Per questo, dopo qualche anno, sono tornato molto volentieri in Messico. E ho considerato un onore aver rappresentato in passato la Fiom, e oggi la Cgil a questo Forum Internazionale sul futuro del movimento dei lavoratori in Messico, a 3 anni dalla Riforma del Lavoro.
a cura di ƒz