Questo testo forte e commovente mi è stato fatto conoscere da Giulia Marcucci, che insegna Lingua e traduzione russa nella mia università, la Stranieri di Siena. Lo ha scritto ieri un coraggioso cittadino russo: un poeta, di cui Giulia ci parla nella breve nota che segue il testo.
Pubblicarlo oggi, in italiano, ci pare abbia un significato profondo. Mentre ci viene chiesto di schierarci con una delle nazioni in guerra, a me pare più giusto stare accanto a chi – dentro ognuna delle due nazioni – si oppone alla guerra, la contesta, la denuncia, spesso a costo della vita stessa. Il nostro collettivo ripudio della guerra, scolpito nella Costituzione da chi dovette farla una guerra giusta (quella della liberazione partigiana dai nazifascisti), rimane vivo e vero solo se non accettiamo il gioco di chi dice che parteggiare vuol dire parteggiare per una bandiera, una nazione, un capo.
Non accettiamo di dover scegliere tra la politica zarista e omicida di Putin e quella imperialista e diversamente omicida della Nato e dell’America di Biden. Siamo incondizionatamente solidali con le cittadine e i cittadini dell’Ucraina che sono ora sotto il fuoco russo, senza per questo appoggiare il governo, inquietante e filofascista, del loro paese. Siamo vicini alle donne e agli uomini della Russia, trascinati in guerra da un autocrate sanguinario.
Ci si dice che dovremmo difendere i valori e gli interessi occidentali. Ma quali sono questi valori: quelli scritti nelle Costituzioni o quelli perseguiti dai governi? E di chi sono questi interessi? «L’interesse nazionale – ha scritto Simone Weil – non può essere definito né da un interesse comune delle grandi imprese industriali, né dalla vita, dalla libertà e dal benessere dei cittadini, perché questo interesse comune non esiste». È dunque nel dissenso interno, nelle ragioni del conflitto sociale, nel rifiuto di ogni nazionalismo, nella difesa dei diritti che va cercata la forza per ripudiare l’idea stessa della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, e come mezzo di costruzione del consenso interno ai singoli Stati.
La guerra è sempre e comunque una inutile strage, promossa, provocata, agita dai pochi che la ritengono invece utile ai loro interessi di potere, e che sono separati da abissi sociali e ormai quasi antropologici da coloro che in quella guerra perderanno libertà, beni e vita. Così, più che dalle mille analisi geopolitiche tutte orientate a priori, in queste ore una luce sembra venire dalle parole di un poeta, che riflette sullo strazio delle parole e del loro significato, eterna premessa allo strazio dei corpi nella guerra.
(Tomaso Montanari)
Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa per un giornale svedese. Ebbene, l’ho fatto:
Ho appena ricevuto una breve mail da una donna che non conosco. Rivolgendosi a me per nome, ha scritto: “Vivo a Charkiv. Charkiv viene bombardata. Per favore, faccia qualcosa”.
Non serve dire nulla su quanto mi sentissi in preda a vergogna e impotente disperazione.
In generale, nessuno nutriva grossi dubbi sul fatto che tutto ciò prima o poi sarebbe accaduto. Eppure, quasi tutti cercavano di non pronunciare questa parola fatale. Dicevano: “Sono certo che stia per succedere”. E bastava questo per esser capiti.
Negli ultimi giorni molte persone – in Russia, in Ucraina e altrove – in pratica non sono riuscite a pensare o parlare d’altro che non fosse questo…
Di fronte all’imminente orrore apocalittico, tutti, come sommergibili privi di ossigeno, tentavano di catturare con avidità dall’aria stantia, dall’etere crepitante, dalla rete mondiale polverosa, segnali reali o presunti, sintomi, tracce, allusioni storiche.
Le allusioni storiche, da un lato, sono evidenti e trasparenti. Il 1939. La Germania. La Polonia. La Polonia, che “aveva incessantemente provocato la Germania, e ora, per proteggere i nostri cittadini, occorre…”
Suona familiare, non è vero?
Questa analogia è trasparente, ma non spiega ogni cosa. La Germania nazista aveva un’ideologia. Si chiamava “nazionalsocialismo”. Questa ideologia ha dato origine a una certa retorica politica ben nota agli storici. C’era il nazionalsocialismo tedesco e c’era una coalizione anti-hitleriana che ha combattuto lo stato nazista e infine lo ha sconfitto.
In maniera graduale parole come “nazismo” o “fascismo” hanno cominciato a perdere il loro significato originale. Private di qualsiasi contenuto semantico, queste parole sono state ampiamente utilizzate in modo puramente strumentale come presunte figure retoriche forti e persuasive.
Negli ultimi anni, nella retorica dell’establishment politico russo è diventato un buon metodo quello di usare ampiamente queste parole private del loro senso nel riferirsi allo stato ucraino.
Quando le parole del presidente russo in merito al fatto che “l’obiettivo dell’operazione militare è quello di denazificare e smilitarizzare l’Ucraina” vengono tradotte in qualsiasi lingua i cui parlanti non hanno ancora perso il contatto con la realtà, una qualsiasi persona civile e moderna sperimenterà immediatamente ciò che in psicologia si chiama “dissonanza cognitiva”. Comincerà immediatamente a dubitare o della salute mentale della persona che pronuncia queste parole, o della propria.
Come comprendere, dal punto di vista della logica classica, il fatto che la “Russia pacifista” ha attaccato “l’Ucraina fascista” al fine di “smilitarizzarla”? Non c’è modo di capirlo se non tenendo conto del fatto che nel vocabolario politico della Russia moderna le parole non hanno affatto il significato che hanno nei dizionari accademici e molto spesso hanno significati direttamente opposti.
Oggi un silenzio perplesso, umiliante, pervade molti di coloro la cui vita è direttamente legata all’urgenza di formulare, nominare, definire, spiegare qualcosa, almeno a se stessi. Stiamo parlando di coloro che vengono comunemente chiamati comunità del mondo della cultura e alle cui voci risonanti la società dovrebbe dare ascolto.
Varie testate mi chiamano e mi scrivono. Chiamano, scrivono e chiedono se posso rilasciare un breve commento. Su che cosa, non lo chiedo nemmeno. È chiaro che si tratta di “cosa pensano gli intellettuali di…”.
Cerco di dire qualcosa. Lo faccio. Ma allo stesso tempo capisco perfettamente che sia io che il mio interlocutore e tutti gli altri per i quali l’unico ed effimero strumento è la parola, ci stiamo ingannando, nutrendoci della triste consapevolezza che la parola è solo una parola e nient’altro.
Ora non sembra esistere né una comunità del mondo della cultura, né semplicemente una società.
Questa mattina ho scritto sulla mia pagina Facebook:
“Patria cieco-sordo-muta…
Ciò può essere più spaventoso e più orribile persino della guerra”.
Non ci sono società o comunità. C’è un paese muto e ci sono singoli individui. Certamente esistono, anche se pochi.
E ognuno di noi, a seconda delle sue capacità e del suo talento, cerca di superare il silenzio e di stabilire almeno un rapporto fantasma con una speranza sfuggente.
Ciò che rende unica la nostra storia è che gli eventi principali si svolgono sempre nell’ambito del linguaggio, non certo l’unica realtà in una vita non del tutto reale.
E tutto si ripete sempre. Beh, no, non si ripete, ma fa rima. La rima infatti non è ripetizione, la rima è consonanza. Ecco perché nulla si ripete mai alla lettera.
Ecco, per esempio, fino a poco tempo fa avevamo paura di pronunciare ad alta voce la parola “guerra”.
Cioè, si pronunciava. Ma esisteva soltanto una “guerra”. La seconda guerra mondiale. E non ci sono state altre guerre. Da allora fino a questi ultimi giorni.
C’era però un’altra guerra, non dichiarata, e quella è sempre durata.
La popolazione del paese è sempre stata divisa in due parti disuguali.
Una parte – sempre minoritaria – si ostinava a chiamare meschinità la meschinità, codardia la codardia, stupidità la stupidità e fascismo il fascismo. L’altra parte, quella maggiore, soggetta all’influenza della retorica ufficiale, chiamava la meschinità patriottismo, la codardia – la necessità di fare i conti con le circostanze, e il desiderio di libertà e apertura espresso dai popoli e dalle società – nazismo.
E questa guerra, una guerra linguistica, una guerra sui significati delle parole e dei concetti, era e rimane la principale e interminabile guerra civile.
E quella guerra che si sta svolgendo in Ucraina da questa mattina, sotto gli occhi del mondo, non viene nemmeno chiamata guerra. La chiamano “operazione militare”.
Ma è una vera e autentica guerra. E deve essere fermata. Come? In qualche modo, ma è necessario. Tutti noi, insieme e individualmente, dobbiamo pensarci”.
(traduzione dal russo di Martina Napolitano)
Lev Rubinštejn, nato a Mosca (dove ancora vive) nel 1947, è stato negli anni Settanta uno dei fondatori del Concettualismo moscovita, una tendenza poetica nata in opposizione al Realismo socialista. Oltre che poeta, è saggista, critico letterario e attivista politico; e in più occasioni ha criticato con insolita franchezza i tratti autoritari e repressivi del putinismo. Le sue opere, tra cui gli originali versi composti sulle schede di biblioteca, sono state pubblicate dapprima attraverso il samizdat e all’estero (Francia e Germania), per apparire in Russia solo a partire dalla fine degli anni Ottanta. In italiano sono stati tradotti alcuni suoi racconti e poesie (p. es. nel volume Mosca sul palmo di una mano. 5 classici della letteratura contemporanea, 2005).
(Giulia Marcucci)