Dopo un rapido passaggio e qualche chiacchierata alla Scuola Diaz (in quei giorni Media Center del Genova Social Forum, poi diventata tristemente nota, insieme alla caserma di Bolzaneto, per la mattanza nella notte tra sabato 21 e domenica 22 luglio), fu una grande, gioiosa e coloratissima manifestazione con tanti migranti sul diritto di asilo e, più in generale, sulla libera circolazione delle persone (e non solo dei capitali e delle merci) il mio primo incontro, giovedì 19 luglio 2001, con le migliaia di partecipanti alle storiche giornate del G8 di Genova. Una manifestazione che sfilò per quasi tutto il percorso tra un imponente spiegamento di reparti di polizia, carabinieri e guardia di finanza senza il benché minimo incidente.
Un’atmosfera piacevole, una manifestazione piena di fantasia negli slogan e nei cartelli. Una giornata in cui c’era ancora posto per le battute di spirito nei miei colloqui telefonici con alcuni amici giornalisti accreditati al G8 con i quali ci scambiavamo informazioni di colore tra “dentro” e “fuori”, con l’illustrazione dei sontuosi buffet allestiti per la moltitudine di partecipanti e accreditati.
Tutto un altro film quello del giorno dopo, in occasione del corteo dei “disobbedienti” che era partito dallo stadio Carlini e attraversava via Tolemaide dove “l’ordine pubblico fu turbato – come scrivono i giudici nella sentenza di secondo grado sui fatti – in conseguenza della carica dei Carabinieri, illegittima ed arbitraria, ma senza che gli atti posti in essere dai partecipanti al corteo integrassero gli elementi costituitivi del reato”. Cariche e conseguenti scontri che, in piazza Alimonda (nella quale peraltro, con Andrea e Carlo, eravamo stati a lungo, poi cacciati da un intenso lancio di lacrimogeni da parte dei carabinieri) determinarono l’uccisione di Carlo Giuliani e che, nonostante il riconoscimento dell’arbitrarietà dell’azione dei Carabinieri, sono costati pene detentive per 5 dei 10 manifestanti condannati (ed uno è ancora rifugiato in Francia) a pene pesantissime, mentre non uno dei condannati tra le “forze dell’ordine” per le violenze e le torture alla Scuola Diaz o alla caserma di Bolzaneto ha mai fatto un giorno di carcere. Né un processo è mai stato celebrato per l’uccisione di Carlo Giuliani.
Ma tutto questo è noto, è storia, e molto è stato e viene detto e scritto in occasione di questo ventennale.
Qui ricordo il clima di tensione creato dalla notizia di un manifestante (subito era circolata la voce che fossero addirittura due) ucciso dai carabinieri arrivata nei tanti gazebo allestiti su tutto il lungomare dove proseguivano incontri e confronti tra le veramente molto variegate anime e culture che facevano parte del “movimento dei movimenti”. Un clima che divenne incandescente quando un considerevole numero di reparti delle polizie cominciò a dirigersi verso l’area del lungomare dove eravamo in tanti, ma senza possibilità di fuga se non in mare. Ad un certo punto però le polizie si fermarono e tornarono indietro verso la Fiera, dove si erano sistemati in quei giorni.
Ricordo anche la facilità con cui comparivano, agivano e scomparivano piccoli gruppi dei cosiddetti “black bloc”, contro i quali non ho mai visto alcuna azione di polizia.
Poi la grande manifestazione del giorno dopo (con la Cgil che si ritira dall’annunciata partecipazione, mentre la Fiom di Claudio Sabattini la conferma), le cariche della polizia (e le azioni dei black bloc che sono così precise da sembrare coordinate), la “macelleria messicana” della notte alla Scuola Diaz e alla caserma Bolzaneto “organizzata e gestita dai vertici della polizia” (come appurato dagli atti giudiziari).
Non è che stupisca questa storica impunità delle polizie (e, per ricordare solo il caso più recente, il carcere di Santa Maria Capua Vetere sta lì a ricordare come tale tradizione di impunità favorisca il ripetersi di violenze e torture), ma giova ricordare che all’epoca capo della polizia era tale Gianni De Gennaro, di area “democratica” (molto vicino a Luciano Violante), che non ha mai neppure chiesto scusa per i fatti di Genova (lo ha fatto anni dopo un suo successore, Gabrielli), né ha subito alcuna conseguenza giudiziaria (assolto in Cassazione) continuando la sua carriera con incarichi sempre più importanti.
Ciò che invece stupisce è l’attualità e validità, a venti anni di distanza, delle ragioni sostenute allora. Dicevamo che questo modello di sviluppo avrebbe portato cambiamenti climatici tali da far scomparire delle terre, obbligando intere popolazioni ad emigrare. E non è proprio quanto sta avvenendo?
Così pure che il dominio della finanza sull’economia reale, avrebbe portato a una gravissima crisi economico-sociale. E non è quanto è avvenuto? E la stessa pandemia non è forse frutto di questo modello di sviluppo?
Lo slogan di quei giorni era “un altro mondo è possibile”, oggi sarebbe da dire che “un altro mondo è urgentemente necessario”.
Vittorio Agnoletto, all’epoca portavoce del Genova Social Forum, in questi giorni, per il ventennale ricordava che “eravamo andati a Genova all’interno del Movimento dei forum sociali mondiali per dire che se questo mondo fosse andato avanti con questo modello di sviluppo, avrebbe rischiato il precipizio. E dicevamo che non va bene un mondo dove il 20% della popolazione mondiale possiede l’80% della ricchezza. Sono passati vent’anni e oggi poco più dell’8% della popolazione mondiale possiede più dell’80% della ricchezza, e il 79% della popolazione mondiale possiede poco più del 3% della ricchezza del mondo. Avevamo ragione noi. Segnalavamo un’ingiustizia che è aumentata”.
Contrariamente alle letture mediatiche più suggestive (“un 68 concentrato in pochi giorni”, “la breve estate del 2001: dal 20 luglio all’11 settembre”), non fu la repressione brutale a disperdere il “movimento dei movimenti”. Negli anni successivi a quelle giornate drammatiche, la partecipazione si estese, Social Forum si costituirono in moltissime città italiane (anche ad Ivrea), furono aperte vertenze diverse, occupati o creati nuovi centri sociali e ci furono grandi manifestazioni di piazza che segnano ancora la storia del nostro Paese: in cinquecentomila nel novembre 2002 a chiusura del Social Forum europeo a Firenze, in tre milioni contro la guerra il 15 febbraio del 2003 (un movimento globale che il New York Times definì “la seconda potenza mondiale”). Né si può negare che il movimento influenzò la più grande manifestazione sindacale di tutti i tempi, quella della CGIL di Cofferati nel marzo del 2002 contro l’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Una partecipazione e una capacità di dialogo e inclusione (guidata dal principio di «massimizzare ciò che unisce e minimizzare ciò che divide») i cui fili si ritrovano ancora nel trionfo del giugno 2011 del referendum per l’acqua pubblica (poi, comme d’habitude, sostanzialmente disatteso dalle amministrazioni pubbliche).
Non fu quindi tanto né la repressione brutale di Genova, né l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre (che certamente bene non fecero) a stroncare l’ampia partecipazione contro i disastri (in atto e annunciati) della globalizzazione liberista. Fu piuttosto la “politica politicante” a deludere profondamente quanti partecipavano alla ricerca di un’alternativa. I DS erano nel 2001 all’opposizione e governava Berlusconi, ma non erano certamente a fianco di quanti a Genova proponevano “un altro mondo possibile” (anzi, gran parte dei dirigenti DS erano invaghiti di Tony Blair e Schroder che al G8 partecipavano, non facevano mistero di vedere come positiva la globalizzazione liberista e si mostravano entusiasti del “libero mercato”). Come pure, dopo l’11 settembre, si precipitarono tutti compatti a sostenere Bush nella guerra in Afghanistan.
Milioni di persone in piazza e nessun risultato concreto qualche anno dopo, nel 2004, di fronte all’escalation della guerra in Iraq. Poi il 2006, la vittoria di misura di Prodi, l’ingabbiamento anche della sinistra in un’esperienza di governo che continuava a gestire il neoliberismo e ancora nel 2007, quando quel sistema entrava in una crisi profonda che aumentava le disuguaglianze, generava delusione e sfiducia nella possibilità di una reale alternativa. Da qui la successiva deriva verso forze “antisistema” che volevano sostituire i “politicanti” con “cittadini onesti”.
Ora, se riteniamo che “un altro mondo è necessario e urgente”, potremmo riflettere e analizzare meglio quanto accadeva venti anni fa e quanto può ancora insegnarci quel movimento che nasceva dall’esperienza zapatista in Chapas e dal Forum Sociale mondiale di Porto Alegre.
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