Zucche, cime e topinambur: nei mercati di Porta Palazzo – La Tettoia dei contadini; Torino, 18.2.2017
“L’ordine dei mercati esprime l’ordine sociale” mi viene da pensare parafrasando con modestia la rilucente e illuminante frase di Adriano Olivetti, “Il disordine urbano esprime il disordine sociale“. E’ sabato mattina e giro in compagnia per i mercati, i mercati, al plurale, i molti mercati, di Porta Palazzo a Torino: sono tra i più belli e inebrianti, vivi e coinvolgenti che io abbia mai frequentato. Ci vengo spesso. Non è il caso di scrivere qui della loro multiculturalità, della loro complessità merceologica, della loro esuberante sensorialità, del loro ordine e del loro disordine (umani, urbanistici e urbani, culturali, economici, sociali…), di quanto esprimano, appunto, l’ordine sociale e l’evoluzione dell’ordine sociale, la dimensione politica, quindi, del vivere quotidiano.
Mi affascina in particolare il mercato generale all’aperto; il settore dei vegetali di agricoltura (diciamo senza fare giudizi) intensiva è un vero trattato di sociologia, di estetica e di architettura bancarellistica; con gli angusti ed affollati spazi tra le alte bancarelle col tetto ed i frutti e le verdure accuratamente disposti “alla meridionale”, con i loro incaricati per la maggior parte nordafricani, esso appare come un vero manifesto dei rapporti storici tra nord e sud, tra immigrazione e popolazione locale, tra passato e presente.
Non sono da meno la bella “Tettoia dell’orologio” ed il Mercato V: salumi, formaggi, carni, farinacei, dolci, gestiti in chiave italiana ma variegati nella loro stratificazione etnica e sociale. Compriamo dei bei formaggi trentini, friulani e siciliani. Anche pane. Del mercato del pesce non scrivo perchè oggi non siamo andati. Ma adesso dirò della “Tettoia dei contadini”, dei vegetali (diciamo senza fare giudizi) a km0. Le bancarelle sono qui molto basse, larghe e senza tetto. Lo spazio è più aperto e l’aria più leggera. Gli aromi ed i colori sono meno complessi e intensi di quelli del mercato all’aperto, qui sono più fragranti, freschi e delicati, più stagionali, le bancarelle sono meno armoniche, meno cariche, tutto appare meno culturale, più naturale; non c’è vociare nè assiepamenti, tutto sembra più attutito ma la bellezza discreta e senza magniloquenza delle verdure e dei frutti, dei fiori appena recisi, vivifica l’ambiente.
Adesso siamo nella bancarella della Lina. La persona che accompagno ci è affezionata. Contro il mio iniziale parere (che poi correggerò) vuole comprare della zucca dall’aspetto molto bitorzoluto e barbaro. “Fidati”, mi dice. Ed io, diffidente, mi fido. La Lina è, forse, vicina agli ottant’anni. Adesso l’aiuta una donna più giovane ma e lei chi più si da da fare. Piccola, asciutta, il suo corpo è una elle girata, la schiena parallela al suolo. La sua testa vivace appena emerge dal livello della bassissima bancarella. Lotta per tagliare la durissima scorza della zucca. Ci seleziona delle noci. E’ una grande la signora Lina! Poi compriamo delle cime di rapa tenere di gambo e con l’infiorescenza di un bel verde. Ce ne sono tante al mercato dei contadini: eredità dai primi immigranti meridionali. Poi mele di quasi una decina di varietà. Cerco anche la varietà “Ambrosia”, mi piace molto ma è molto rara. Qui dovrebbe esserci. “Non c’è”, mi dice una ragazza decisa. Il coltivatore sente da lontano e si giustifica: “L’Ambrosia viene dal Canada e un collega cuneese ha praticamente l’esclusiva”. Ah, beh… Compriamo altre verdure e alla fine, chissà perchè, butto l’occhio su un bel cassetto di topinambur. Non sono nodosi ed irregolari e non hanno fango intorno come altri spontanei e appena disseppelliti dalle grigie terre piemontesi. Ne compro qualcuno e usciamo contenti da questa gita frequente ma sempre istruttiva nel ricco e goloso mondo di Porta Palazzo. Cosa ne facciamo, adesso, con la zucca bitorzoluta della signora Lina, le cime di rapa dai teneri gambi e i rotondi, paffuti, topinambur?
Terre di sole e terre d’ombra: stufato di zucca, cime di rapa e topinambur con bagna cauda leggera e altre memorie culinarie; Torino, 19.2.2017
Ero intenzionato a scrivere oggi, qui, di centri sociali, economia partecipativa e circo catalano ma mi sono immedesimato troppo con i mercati di Porta Palazzo e non me la sento di lasciare la zucca, le cime e i topinambur appena comprati abbandonati al loro destino. Ecco, cosa ne facciamo, adesso, con la zucca bitorzoluta della signora Lina, le cime di rapa dai teneri gambi e i rotondi, paffuti, topinambur? Soprattutto con i topinambur?
Provengo dalle terre solari d’Europa, dalle terre più meridionali affacciate sul Mediterraneo, terre celesti, asciutte e calde, abbaglianti di luce, sature di colori, le narici abituate all’oleosa essenza del timo e della lavanda, del gelsomino e della zagara, terre la cui narrazione vuole che tutti noi guardiamo verso l’alto, nostalgici delle ali e dei nostri antichi olimpici dei celesti. Siamo gente di frutti alti e soleggiati, limoni, mandarini, cotogne, melograni, arance… verdure fatte di luce, di prosciutti, salumi e formaggi stagionati nei caldi e secchi solai o nei terrazzi… di sparuti saporosi funghetti raccolti sotto i tronchi dei pioppi che sopravvivono sulla riva dei torrentelli. Trovandomi per destino nelle più oscure terre del nord ho dovuto compiere il rito iniziatico seppure gioioso che mi riconciliasse con il sottobosco e con le nebbie, con i prosciutti, i salumi e i formaggi stagionati in profonde grotte, con i frutti di terre fredde, con i funghi cresciuti al buio, col burro e con le verze, con le masche e i misteriosi esseri che popolano gli oscuri boschi e la notte.
Cosa avrei dovuto fare di quei tubercoli, radici, strani frutti che si raccolgono dal fango umido del bosco, tra la melma dei torrenti, a volte quando ancora è notte? Persino del sacro tartufo bianco non sapevo cosa farmene. Figuriamoci del topinambur. Il topinambur, altrimenti chiamato tapinambur, topinabò, tapinabò, ciopinabò, ciapinabò… Lo mangiavo se me lo offrivano ma non lo compravo. Adesso sì. Ogni tanto. E lo cucino con o senza buccia, crudo o cotto in molti modi. E’ la radice del sole (così lo chiamano anche) e i suoi bei fiori gialli hanno qualcosa di solare come i girasoli. O come la zucca! Ha un leggero sapore di carciofo e un leggerissimo aroma floreale come le cime di rapa che richiamano la rosa. Certo hanno anche quell’aroma di umido e fangoso. Un incontro tra oscurità e luce, tra terra profonda e cieli tersi. Cosa ne facciamo, dunque, adesso, con la zucca bitorzoluta della signora Lina, le cime di rapa dai teneri gambi e i rotondi, paffuti, topinambur? Soprattutto con i topinambur?
Stufato di zucca, cime di rapa e topinambur con bagna cauda leggera: Scortecciate e tagliate a dadini un pezzo di zucca simile a quella della signora Lina e rosolateli in poco olio d’oliva a fuoco basso finchè siano dorati; versate poi i dadini irregolari di topinambur (previamente sbucciato) e ripassateli un po’ con la zucca. Salate appena. Versate sul tutto un po’ di vino bianco e coprite. Rimescolate ogni tanto finchè cuociono senza lasciare che si disfino troppo. Nel frattempo bollite in poca acqua leggermente salata le cime di rapa previamente pulite. Quando sono ancora croccanti scolatele e versatele sulla zucca e il topinambur. Mescolate delicatamente. Togliete dal fuoco. Nel frattempo fate una bagna cauda leggera con un po’ d’olio d’oliva, uno spicchio grande d’aglio e qualche acciuga. Versatela ben calda sullo stufato ancora caldo. Mescolate delicatamente.
Paco Domene