Un’intervista a Francesco Marcone, studente quindicenne del Liceo Scientifico A. Gramsci che ha passato le mattinate dell’11 e 12 gennaio davanti alla sua scuola, seguendo le lezioni al freddo come forma di dissenso
Con il ritorno a scuola si abbandona almeno in parte la didattica a distanza, strumento verso il quale in molti nel mondo della scuola hanno espresso forti critiche. A Ivrea Francesco Marcone, studente quindicenne del Liceo Scientifico A. Gramsci, ha passato le mattinate dell’ 11 e 12 gennaio davanti alla sua scuola, seguendo le lezioni al freddo come forma di dissenso. Il 14 gennaio altri tre studenti, due del Liceo C. Botta e uno dell’Itis Olivetti, hanno emulato spontaneamente il suo gesto, portando avanti la protesta.
Diamo un po’ di contesto: come mai hai deciso di passare due mattinate a -3° davanti alla tua scuola?
Sono andato davanti al Gramsci per manifestare, sia per il ritorno a scuola che non era avvenuto nei giorni precedenti, sia per riaccendere l’attenzione sul tema scuola. Non ho scioperato ma ho seguito le lezioni lì perché comunque mi sembrava un’opportunità di imparare. Penso di non essere nemmeno un’eccezione perché credo che un po’ tutti, studenti e insegnanti, volessimo tornare a scuola: io ho solamente agito in modo simbolico.
A tuo parere, cosa si perde maggiormente con la didattica a distanza?
Sicuramente il contatto sociale. Nelle lezioni che frequento non è comprensibilmente obbligatorio tenere la telecamera accesa, ma dall’altro lato non poter nemmeno vedere se c’è qualcuno dall’altra parte dello schermo penalizza sia noi studenti che gli insegnanti. Di buono c’è che, anche se a distanza, gli studenti si scrivono, chattano e parlano. È una cosa completamente diversa dalla socializzazione a scuola, però mi piace pensare che in qualsiasi caso ci sia del contatto tra studenti. In DAD si perde ovviamente anche dal lato dell’apprendimento, sia perché seguire risulta difficile, ma soprattutto perché le distrazioni sono molte di più.
Che cosa diventa la scuola con l’esclusivo e/o maggioritario utilizzo della DAD?
Diventa un surrogato della realtà, un po’ come tutto durante il lockdown. Si cerca di fare lezioni simili a quelle in presenza nonostante la differenza sia palese. Sarebbe utile invece cercare un modo di rendere le lezioni in DAD interessanti e interattive in quanto tali, quindi con tutte le possibilità che questa didattica offre: siti interattivi, quiz o anche banalmente video e film.
Quanto ne risentono la concentrazione e la qualità dell’apprendimento nello studio?
Molto, e maggiormente per due motivi: dal punto di vista pratico le lezioni sono noiose e ci si distrae più facilmente, riducendo le possibilità di apprendimento. Dal punto di vista emotivo, se non ci si muove da casa, si sta fermi e non si hanno stimoli anche solo dalla quotidianità si perde la voglia di impegnarsi in tutto ciò che si fa, scuola compresa.
Come sono cambiati i metodi di verifica?
Le verifiche vengono condensate in poco tempo ma con tanti argomenti per evitare che si copi. La sensazione è che vengano fatte più per evitare i suggerimenti che per verificare le conoscenze degli alunni. Altri professori hanno deciso che la DAD era un metodo inaffidabile e che quindi tutte le verifiche saranno fatte quando si rientrerà a scuola. Questo aggiunge un peso enorme e il rientro viene vissuto negativamente per la mole di lavoro che si prospetta. La forma dei test non è cambiata più di tanto a parte certi casi in cui la verifica consiste in un elenco di domande a crocette che non lasciano spazio per esprimere tutto ciò che si conosce.
Quanto è inclusiva la DAD?
Nella mia classe siamo in circa 30, dei quali una media di tre non è presente alle lezioni. La scuola ha messo a disposizione dei computer per chi ne avesse necessità ma per la connessione non si può fare molto. È successo più volte che sia gli studenti sia gli insegnanti avessero problemi legati alla connessione e in quel caso si crea una situazione di disparità che va ad intaccare l’educazione e l’apprendimento. Purtroppo su questi problemi non si può intervenire e questo è un aspetto pessimo della DAD. A scuola sarebbe impensabile che un singolo studente avesse più o meno possibilità rispetto a un altro di ascoltare l’insegnante.
La partecipazione scarseggia e poche volte ci è stato chiesto di accendere la telecamera per salutare. Vengono poste delle domande per capire quanto “lo schermo” che i prof hanno davanti abbia capito, ma è una partecipazione forzata, che non stimola l’interesse dello studente e non aggiunge niente di utile alla lezione.
È ancora possibile pensare a una scuola delle competenze con la DAD? O si torna al nozionismo?
Durante la DAD si ha spesso l’impressione che agli insegnanti paia più importante arrivare alla fine dell’ora che accertarsi di quanto la lezione sia stata compresa dagli alunni. Io capisco anche il punto di vista dei professori che faticano moltissimo, ma se le lezioni si svolgono così è quasi inevitabile arrivare a un punto in cui si sanno sì tante cose, ma ugualmente non si capisce più ciò che ci accade intorno. La scuola non è una pagina di Wikipedia da cui attingere nozioni, ma piuttosto un luogo dove, apprendendo le informazioni necessarie, si meglio comprende la realtà che ci circonda. Nella DAD diventa difficilissimo, poiché i momenti in cui si coinvolgono gli studenti e si manifestano i pensieri collettivi risultano praticamente assenti.
Hai iniziato questa settimana da solo, ma presto si sono uniti uno studente dell’Itis Olivetti e due studentesse del liceo Botta. Se penso a me stesso ai tempi del liceo, ammetto che avrei trovato difficile l’idea di venire a scuola alle 8 del mattino (in inverno) senza essere obbligato, ma certo non mi sono mai trovato in una situazione simile alla vostra, con le scuole chiuse a intermittenza ormai da mesi. Quale pensi sia il motivo per cui molti altri studenti, genitori e professori non si uniscono alla tua protesta?
Il freddo è sicuramente demolitore di volontà, ma ho anche notato come molti non sapessero della protesta. Ho ricevuto tanti messaggi positivi, penso di aver portato un messaggio condiviso da molti che, anche se non presenti fisicamente, mi hanno supportato. Inoltre con l’inizio della seconda metà dell’anno scolastico, credo molte persone volessero vedere se la situazione migliorava da sé. Alla fine siamo tornati a scuola, ma se lo troverò necessario mi piacerebbe riproporre la protesta, magari coinvolgendo anche i docenti e gli studenti universitari.
Le scuole sono chiuse mentre diverse attività ben più a rischio contagio e notevolmente meno essenziali rimangono aperte, una scelta che appare sempre più politica che sanitaria. Perché pensi che in Italia la scuola sia un tema così bistrattato?
Penso che non si percepisca il potenziale della scuola. Molti studenti hanno perso tantissimo, ma piuttosto che cercare di dare loro un’educazione con la E maiuscola si decidono e discutono molte stupidaggini che risultano superflue di fronte all’educazione del futuro, di noi studenti. Non voglio dire che le altre attività siano inutili, però prima si garantisce la presenza in sicurezza a scuola e poi si pensa al resto.
La sensazione diffusa è di essere considerati gli ultimi. In altri Paesi europei si sono adottate soluzioni di lockdown più o meno generalizzato ma con un punto fermo: le scuole. Andare a scuola in sicurezza è possibile ed è una priorità.
Da Milano a Faenza, molti sono i casi di studenti e professori che occupano simbolicamente aule per farci lezione dentro. Pensi che questi metodi di lotta, spesso definiti sorpassati, possano essere utili in un momento tanto tragico per la scuola?
Credo che questi metodi, con le dovute precauzioni e sempre rispettando le regole di prevenzione del covid, possano dare un messaggio molto forte e far capire che gli studenti ci tengono alla loro educazione e che devono essere considerati una parte attiva nelle decisioni.
Soprattutto in un momento difficile come questo, dove si tende a non guardare alla scuola come a una necessità, queste azioni possono portare un po’ di attenzione.
Dagli anni ’70 in poi, gli studenti in Italia hanno visto sempre più assottigliarsi il loro valore come elemento politico. Oggi le organizzazioni studentesche hanno nel migliore dei casi un valore puramente formale. Come far sì che gli studenti si riprendano il centro della scena politica e sociale del paese? Come costruire nuove forme di organizzazione studentesca per far sentire la propria voce?
Gli studenti hanno i mezzi per esprimersi come i rappresentanti di istituto, ma spesso si tende a dare loro un ruolo puramente simbolico o tutt’al più amministrativo. I rappresentanti diventano così quelli che cercano di risolvere i problemi quotidiani degli studenti. Questa cosa è sacrosanta ma si potrebbe cercare di puntare a una visione a più ampio raggio per cambiare le cose, per poter agire in modo diverso. Altre organizzazioni, come Acmos, hanno vari progetti per le scuole e sono validissimi ma gli studenti hanno poca voglia di essere coinvolti. Manca il sentimento di vivere la scuola come un luogo di confronto a tutto tondo e la voglia e la consapevolezza di poter fare qualcosa per cambiare ciò che ci piace di meno. Spero che anche gli insegnanti puntino a creare l’ambiente giusto per fare della scuola un posto che aiuti a farsi un’idea sulla realtà e a manifestare per esprimerla.
a cura di Lorenzo Zaccagnini