Tra responsabilità individuali e collettive, la schizofrenia di un sistema incapace di uscire dai propri impasse
È ormai da quasi un anno che il paese è paralizzato dalla crisi pandemica; di conseguenza, è quasi un anno che non si parla d’altro. Giornali, riviste, libri scritti e pubblicati in tempi record, approfondimenti, programmi TV, interviste, seminari e conferenze online: tutto esclusivamente (o quasi) a tema “covid”. Se, da una parte, ci troviamo effettivamente di fronte a quella che con ogni probabilità si configurerà come una delle più grandi crisi globali sperimentate dalle generazioni attualmente viventi, è anche vero che, purtroppo, non è questa l’unica di cui dovremmo preoccuparci. Nel corso di questi mesi si sono susseguiti molti avvenimenti che avrebbero richiesto la nostra attenzione e che, invece, sono a malapena riusciti a guadagnarsi un posto nella pagina di un quotidiano o nella scaletta di un telegiornale. In particolare, sembra che quest’anno ci siamo dimenticati di vivere in città pesantemente inquinate. Mi spiego: sembra che quest’anno sia saltata quella che deciderò di chiamare la “paranoia autunnale da inquinamento” (d’ora in poi PAI): la PAI arriva tutti gli anni, all’incirca verso ottobre, quando inizia a fare più freddo e smette di piovere. La drastica riduzione delle precipitazioni e la ri-stabilizzazione, dopo le ferie, dell’attività umana ritualizzata (la routine quotidiana dei lavoratori-consumatori, ma anche il ritorno a pieno regime della produzione) porta, ogni anno, all’aumento dell’inquinamento, riscontrabile in preoccupanti concentrazioni nell’aria di particelle e polveri sottili dannose per la salute (non solo) umana. L’aria in città si fa pressoché irrespirabile, una coltre grigia e opaca filtra ogni cosa, specialmente a Torino, una delle città più inquinate in Europa; quindi, ci spaventiamo, entrando in PAI per qualche settimana: i quotidiani ne parlano, le giunte comunali bloccano il traffico, Chiara Appendino ci dice di “stare a casa” (con le finestre chiuse), si fa qualche riflessione collettiva sul nostro povero pianeta inquinato, e poi silenzio fino all’anno successivo, quando la PAI colpirà ancora. Ecco, quest’anno la PAI non è arrivata o, almeno, non con la consueta forza: la crisi pandemica ha monopolizzato le nostre energie mentali. Non che cambi molto: con la facilità con cui si è sempre liquidata la questione, spingendola nel dimenticatoio, peraltro già ben fornito, delle cose gravi ma di complessa soluzione, aver evitato l’ennesimo allarmismo destinato a scomparire nel giro di poche settimane (con le prime piogge e una maggiore respirabilità si ritorna tutti, tendenzialmente, abbastanza sereni) è forse un bene. Il problema non sta tanto nel fatto che la sensibilizzazione sul tema “inquinamento” quest’anno risulti un po’ fiacca, quanto nella sistematica mancanza di soluzioni efficaci, nonostante il problema dell’inquinamento ci perseguiti da decenni.
Torino, città inquinata
Forse non tutti sanno che, come riportato nei rapporti annuali dell’EEA (European Environmental Agency), sono più di 400mila le morti premature che, ogni anno, sono causate dagli alti tassi di inquinamento nei paesi europei. Solo in Italia, il numero dei morti sarebbe oltre i 60mila. In questo quadro, Torino spicca per la perseveranza con cui si posiziona al vertice delle classifiche di inquinamento: per diversi anni consecutivi la concentrazione di polveri sottili (PM), ozono troposferico (O3) e diossido di azoto (NO2) nell’aria torinese ha ampiamente superato la soglia prevista dalle direttive europee. Con l’aggravante che le soglie europee indicano limiti normativi, che non rispecchiano quindi i valori a reale tutela della salute: questi sarebbero decisamente più stringenti. Uno studio particolarmente prezioso, dal punto di vista euristico, pubblicato dall’epidemiologo torinese Giuseppe Costa, aggiunge un livello di complessità in più: non solo l’aria a Torino è, in generale, di pessima qualità, ma vi sono zone in cui gli effetti dell’inquinamento colpiscono più duramente. Visivamente, si può utilizzare il percorso della linea 3: il tram (ora sdoppiato) parte dalle agiate zone pre-collinari e percorre l’intera città fino al quartiere periferico delle Vallette. Ogni chilometro percorso sul 3 corrisponde a qualche punto in meno nell’aspettativa di vita, fino a delineare un divario di più di quattro anni (82,1 per i residenti in precollina, 77,8 per gli abitanti delle Vallette). La qualità dell’aria peggiora, infatti, notevolmente nei quartieri più periferici, anche se non è l’unica causa delle peggiori condizioni di salute: il divario è anche sociale, e vede opporsi i diversi stili di vita accessibili dagli abitanti dei diversi quartieri di Torino. L’aria pulita è sempre più un lusso, e questo vuol dire che lo sono anche le condizioni ambientali compatibili con la salute.
Ridurre l’inquinamento: un vantaggio sotto ogni punto di vista
D’altronde, è risaputo – e da molto tempo ormai – che l’aria inquinata delle nostre città riduce l’aspettativa di vita media rendendo più probabile l’insorgere di malattie respiratorie, disturbi al sistema cardiovascolare e cancro. Per questi motivi l’inquinamento è considerato il fattore ambientale più pericoloso per la salute, seguito immediatamente da quello legato alle conseguenze del cambiamento climatico: due fattori di rischio strettamente collegati e inseparabili in una visione di riduzione del danno e arginamento del problema. Infatti, e come fa giustamente notare Legambiente nel rapporto Mal’aria di quest’anno c’è complementarietà tra le misure adottate per far fronte alla crisi climatica e quelle che si dovrebbero attuare per ridurre l’inquinamento: la scarsa qualità dell’aria non è che una faccia del più generale degrado ambientale di origine antropica. I costi umani di questa doppia crisi vengono raramente citati, soprattutto in questi mesi di bollettini giornalieri sui decessi provocati dal virus, tra l’altro strettamente legati ai tassi di inquinamento, eppure facendo due conti ci sarebbe da entrare in paranoia per davvero. Per non contare il danno economico che la cattiva salute provocata dall’inquinamento arreca ai paesi europei, che in generale hanno ancora la gentilezza di offrire un sistema sanitario generalmente accessibile a tutti: secondo le fonti citate in Mal’aria, il danno economico “stimato sulla base dei costi sanitari comprendenti le malattie, le cure, le visite, i giorni di lavoro persi” sarebbe compreso, a livello europeo, tra i 330-940 miliardi di euro (il grado di incertezza è molto ampio per le ovvie difficoltà legate al quanto mai vago concetto di “danno economico”). Insomma, da un serio sforzo per ridurre l’inquinamento sembrerebbero derivare solo vantaggi (anche il nostro idolatrato PIL ne gioverebbe!): e allora perché i dati peggiorano di anno in anno, e perché nessuno sembra preoccuparsene veramente?
Le contraddizioni delle misure anti-inquinamento
La mia ipotesi è che nessuno considera il problema realmente risolvibile. Ma questa sfiducia, per quanto condivisibile vista l’estrema complessità dei problemi innescati a livello ambientale dall’attività umana, andrebbe incanalata in direzioni più chiare. Con una breve ricerca si può infatti giungere alla conclusione che le misure anti-inquinamento prese a fronte dei continui allarmi sono decisamente insufficienti e mal progettate, spesso per motivi incomprensibili (o fin troppo comprensibili). A livello urbano, infatti, si continuano a intensificare le restrizioni al parco macchine ammesso alla circolazione: se, da una parte, le misure sembrerebbero giustificate dal fatto che il traffico rappresenta la principale causa di inquinamento urbano (e non in assoluto), dall’altra è evidente che risulti penalizzata quella fascia di popolazione che non può permettersi una macchina nuova che rispetti i parametri (peraltro effimeri) ammessi, ma nemmeno di rinunciare in toto all’automobile (perché il sistema dei servizi pubblici è inaffidabile o poco efficiente, perché costretta a vivere molto lontano dal proprio luogo di lavoro, etc.). Siamo di fronte a un (apparente, come si vedrà) paradosso: il principio da cui prendono forma le misure di restrizione del traffico è potenzialmente virtuoso, perché in un’ottica sistemica l’obiettivo di ridurre drasticamente l’utilizzo di autoveicoli individuali possiede quella lungimiranza ed efficacia necessarie per fronteggiare una crisi generalizzata come quella in cui ci troviamo; ma lo stesso principio si rivela anche miope, nel momento in cui lascia da parte problemi di applicazione fondamentali, come la distribuzione ineguale dei gradi di bisogno dalla macchina individuale e dell’altrettanto ineguale distribuzione delle possibilità di sostituirla o rinunciarvi; inoltre, non si riscontrano i miglioramenti nel servizio dei trasporti pubblici che sarebbero necessari per creare alternative alle automobili private: anzi, abbiamo spesso assistito a incomprensibili riduzioni nei servizi come cancellazione di corse ed eliminazioni di linee. Un altro esempio è la regolazione e l’ottimizzazione delle emissioni legate ai riscaldamenti domestici: analogamente, l’idea di partenza è condivisibile, ma non tiene in conto delle differenze strutturali nelle abitazioni dei cittadini, spesso bisognose di manutenzione o ristrutturazione e poco efficienti dal punto di vista energetico. In entrambi i casi gli incentivi previsti sono spesso insufficienti o inaccessibili a una popolazione ben più eterogenea di quella a cui questi provvedimenti sembrano rivolgersi.
Un ulteriore criticità è che entrambe le proposte partono dal presupposto che la soluzione del problema dell’inquinamento risieda innanzitutto nella responsabilità e nelle buone condotte individuali. Tuttavia, non sono i singoli individui i maggiori responsabili delle emissioni, bensì l’apparato di produzione e consumo in cui questi sono inseriti: come segnalato dal report di Legambiente citato sopra, i settori dell’industria e dell’agricoltura sarebbero i meno toccati dai programmi per la riduzione delle emissioni (si veda per esempio il programma redatto nel 2017 dalle giunte dell’area del Bacino Padano per migliorare la qualità dell’aria). Insomma, sembra che se, da una parte, si richieda uno slancio di impegno e virtuosismo dai singoli cittadini, dall’altra si chiuda un occhio sull’impatto ambientale, decisamente significativo, di industrie e grandi aziende: si pensi alla devastazione ambientale provocata dallo stabilimento Solvay di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, che da circa un secolo rilascia nell’aria, ma anche nell’acqua e nel terreno dell’area circostante numerose sostanze tossiche (gli PFAS) responsabili di svariate patologie, anche gravi. Gli studi condotti dall’ASL sul territorio limitrofo al polo chimico-industriale riportano una mortalità più elevata rispetto alla media regionale; nonostante questo, e nonostante una condanna in Cassazione per disastro ambientale, l’industria continua ad ottenere permessi per l’ampliamento dello stabilimento e a non adempiere agli obblighi di risanamento.
Sembra, insomma, che la strada per una soluzione al problema dell’inquinamento sia ancora lunga. Ma ci penseremo il prossimo autunno.
Lara Barbara