La protesta dei lavoratori dello spettacolo a Torino ci costringe ad una riflessione sul valore della cultura
Il 30 ottobre a Torino all’incirca mille persone si sono ritrovate in piazza Castello per la manifestazione, indetta da Cgil, Cisl e Uil, dei lavoratori dello spettacolo. Maschere del cinema, attori, musicisti, circensi, ballerini e artisti di ogni genere, hanno protestato insieme contro le condizioni di non-lavoro alle quali sono sottoposti per effetto delle chiusure, imposte dal dpcm del 24 ottobre, che sembrano inasprirsi di giorno in giorno. Folta la presenza di tutti quei lavoratori spesso dimenticati che ruotano dietro al mondo dello spettacolo e della cultura, i cosiddetti “tecnici”: proiezionisti, fonici, tecnici delle luci, montatori di video e tutti quei professionisti che, operando dietro le quinte, hanno a volte lo stesso peso sulla riuscita o meno di un’opera di quanto ne abbiano gli artisti stessi. Presenti anche rappresentati di scuole, accademie e associazioni che si occupano dell’insegnamento delle arti, compresa qualche personalità di spicco come Alessandro Baricco, che definirà la chiusura dei teatri come “una soluzione semplicistica”. Verso sera, in piazza Valdo Fusi, diversi musicisti si son ritrovati assieme, con gli strumenti a terra, per un concerto muto.
In un paese come l’Italia, dove la reazione più diffusa al sentir parlare di cultura è mettere mano alla pistola, era prevedibile che, nel momento di scegliere cosa sacrificare, il mondo dello spettacolo sarebbe stato tra i primi caduti. È del resto la stessa figura dell’ “artista” nell’immaginario collettivo ad essere mal tollerata: costantemente in bilico tra lo squattrinato infantile e parassita della società da un lato e l’intellettuale ricco e snob, che non sa cosa sia il vero lavoro e che probabilmente è famoso grazie a qualche aggancio o parentela. Insomma, o danno fastidio perché non fanno abbastanza soldi o perché ne fanno troppi. Del resto quale genitore italiano, per quanto progressista, non proverebbe per lo meno una lieve preoccupazione nel sapere che il figlio vuole scegliere la carriera d’artista in questo momento storico?
È qui che sta il problema di fondo, il rapporto tra spettacolo, cultura ed economia: in una visione puramente neoliberista, guardando cioè all’arte in termini di sole logiche di mercato, non serve certo un economista per accorgersi che è un mondo in perenne perdita. Ne consegue un taglio netto dei capitali riservati alle arti, che vanno a convergere in quello che potremmo chiamare intrattenimento di massa, l’unico campo che ancora riesca a guadagnare.
Si prendano come esempio le sale cinematografiche: attività in perdita per eccellenza, i cinema si trovavano in una situazione critica già prima del lockdown a causa della concorrenza spietata delle piattaforme e del disinteresse del pubblico. Similmente ai teatri, hanno spesso speso gli ultimi risparmi per adeguarsi alle norme anti-contagio, limitando i posti e comprando diffusori di ozono per sanificare le sale, nella speranza di rialzarsi. Non è servito. Differentemente dai teatri tuttavia, i cinema non sono considerati luoghi di cultura degni di essere preservati grazie a finanziamenti e aiuti a fondo perduto. Ciò ha un effetto non solo da un punto di vista economico (le piccole sale che chiudono una dopo l’altra lasciando sul territorio solo pochi multisala) ma anche sulla qualità del prodotto stesso: non è un caso che a maggio dopo il lockdown il film che ha portato un’iniezione di liquidità ai vari cinema sia stato After 2. Sono le stesse case di produzione, che in questo periodo evitano direttamente di far uscire nuovi titoli che non siano esclusivi delle piattaforme, a dettare questa linea. D’altronde se questi sono i titoli che riscuotono maggiori incassi è normale che si continui a produrli ed è normale che le sale continuino a darli. Se insomma l’arte e la cultura hanno valore solo in base ai capitali che spostano, Lockdown all’italiana di Enrico Vanzina è ciò che ci meritiamo. In caso contrario dovremmo iniziare ad ammettere che diverse forme d’arte non ce la faranno da sole a superare questa crisi e che forse l’apporto di queste ultime alla società non si possa valutare solamente dalla quantità di denaro che spostano.
Questo genere di riflessioni dovrebbe riguardare particolarmente la nostra città. Ivrea, a fronte dei suoi 23 500 abitanti, è conosciuta per un consumo di cultura enorme relativamente alle proprie dimensioni: due cinema (ognuno dei quali con un suo cineclub), un teatro, diverse librerie e scuole di danza e una lista ragguardevole di iniziative culturali con un certo successo di pubblico. Quanto di tutto questo resisterà alla crisi? Negli ultimi anni abbiamo perso molto, si pensi a Ivreaestate, il festival del cinema all’aperto troncato dopo 30 anni, o Giugno in musica, che dava la possibilità a tanti musicisti emergenti di esibirsi. La grande invasione, il festival della lettura, quest’anno si è salvata, sarà così anche per il prossimo? Il terreno fertile che Ivrea ha sempre rappresentato per la cultura sembra aver resistito persino allo spietato processo di deindustrializzazione che sta inesorabilmente riportando un paese che ha sognato di diventare città ad essere di nuovo quello che era, soltanto l’ennesimo paese di provincia, materiale da cartolina. Riflettiamo seriamente sul valore non solo economico (che pure è ragguardevole) che la cultura e lo spettacolo hanno rappresentato per Ivrea, e se valga la pena di perderlo o meno.
Oggi l’Agis (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo) e il Comitato Emergenza Cultura sono tornati a bussare alle porte della Regione Piemonte, ribadendo l’urgenza della pubblicazione dei bandi per l’assegnazione delle risorse del 2020, con la conferma delle dotazioni del 2019, oltre all’erogazione dei saldi per l’attività dello scorso anno. Andare oltre significa non avere più il tempo per assegnare i fondi entro la fine dell’anno a chi ne avrebbe diritto. “Non saremmo dovuti arrivare sin qui. Ora questo appuntamento non può essere mancato” dicono l’Agis e il Comitato.
Sipario.
Lorenzo Zaccagnini