Qualche riflessione, da dentro, sul mestiere più fortunato del mondo
La frase che mi sono sentita ripetere più volte da quando ho iniziato ad insegnare, oltre 25 anni fa, è stata questa: “Ah fai la maestra! Allora tre mesi di vacanza d’estate! Fortunata!” C’era sempre un non so che di rimprovero in quelle parole, un misto d’invidia e di sarcasmo, una sottile denigrazione a cui non riuscivo a ribattere con qualcosa di sensato e di adatto. Con una qualche risposta che desse voce al mio senso di offesa e di umiliazione. Nel tempo ho imparato a sottolineare, semplicemente, come i mesi di vacanza fossero due, e non tre, perché forse non tutti sanno che gli insegnanti restano in servizio fino al 30 giugno e riprendono le attività il 1° settembre. Ma devo dire che tra tutte le motivazioni che mi hanno portata a scegliere, e ad amare, questo lavoro, quella dei due (o tre) mesi di vacanza non l’ho mai considerata.
Ho ripensato spesso a quella frase in questi lunghi mesi di didattica a distanza. Una discreta percentuale di opinione pubblica disegnava frotte di insegnanti di ogni ordine e grado impegnati a bere mojito e a fare la ola a casa durante il lockdown , in un immaginario semicollettivo in cui la nullafacente docente si trovava, finalmente, nella sua condizione ideale: a casa, senza alunni, a poltrire sul divano invece che alla cattedra, con il beneplacito e l’immeritato stipendio forniti direttamente dal ministero!
La didattica a distanza che ho visto e ho vissuto io è stata un’altra.
Io quella distanza non la volevo, non l’amavo, non la cercavo. Come me, moltissimi insegnanti. Per alleviarla sono caduti dei muri, le barriere che c’erano prima, i confini: di ruoli, di spazi, di tempi. Non c’era più né orario del giorno né luogo della casa a separare vita privata da vita lavorativa. Io entravo nelle esistenze e nelle abitazioni dei miei bambini coi miei video, i miei messaggi, la mia voce, le mie foto. Loro entravano nella mia. E poi c’era la necessità d’ingegnarsi per creare situazioni che attivassero dei processi, che li mettessero in relazione tra loro, perché la scuola è questo: pratica, sperimentazione, dialogo, relazione, socialità. E c’era la gioia nel vedere i loro visi felici, nell’ascoltare le loro voci complici, nel sentire l’entusiasmo per il torneo di battaglia navale o per lo scambio di libri al cancello. La gioia erano le foto del disegno o degli origami, “te le mando anche se non erano di compito”, o della torta e delle brioche preparate con mamma e papà, il video della caccia al tesoro tra la cucina e la cameretta, alla ricerca delle fonti storiche della propria vita per il lavoro di storia. E c’erano la frustrazione e l’impotenza di non poter raggiungere tutti, di ascoltare nei colloqui coi genitori in video chiamata le difficoltà e le solitudini delle famiglie, disagi tutti diversi, da comprendere, accogliere, sostenere per quanto possibile, per come ero capace. E poi c’erano i corsi di aggiornamento a raffica, le riunioni e i collegi docenti su Meet, le conversazioni e le discussioni continue con le colleghe. L’altra sera, mentre passeggiavo vicino casa dopo cena, ho incontrato la mamma di un’amica di mio figlio. Mi ha chiesto come stessi. Si è stupita della mia stanchezza, era implicito, per lei, che durante la didattica a distanza io mi fossi riposata. “Qui in paese le maestre non hanno fatto niente”, mi ha detto. Le maestre. I genitori. I bambini. I giovani.
Anch’io ho un sogno che coltivo da tanto.
“I have a dream”. Un sogno in cui il mondo non è diviso in categorie, in cui esiste una società in cui non si valuta sulla base di stereotipi, ma si guardano davvero le persone, le azioni, le idee, i progetti. Un sogno in cui genitori ed insegnanti non sono avversari di squadre diverse “l’un contro l’altro armati”, ma adulti che collaborano per il benessere e la crescita dei bambini, per trovare, insieme, il modo per risolvere problemi. Ecco. Quel sogno io l’ho visto in parte realizzarsi. Proprio in questi mesi di pandemia, in cui la vicinanza andava RIcercata e RIcreata, da tutti, su altre basi, in altri modi.
Evviva! Quasi quasi festeggerei…con un mojito e una ola, proprio ora che mi aspettano ben tre, anzi due, mesi di vacanza!
Giovanna Mazza, maestra