RUBRICA La scimmia sulla spalla
Nel 1992 Mark Dunn, umile bibliotecario newyorkese, scrive una commedia dal titolo “Frank’s life”, messa in scena lo stesso anno in un teatrino di New York.
La storia narra di un ragazzo inconsapevole che la sua vita, sin dal momento della sua nascita, sia un seguitissimo reality show televisivo a livello mondiale.
Nel 1998, esce nelle sale cinematografiche “The Truman Show” e il sopracitato Mark Dunn, elencando ben 149 similitudini tra la sua storia e quella portata sul grande schermo, fa causa ai produttori.
Tuttavia quest’ultimi asseriscono d’essere in possesso della sceneggiatura datata e tutelata dal diritto d’autore dal 1991.
La classica storia di un nano contro una risma di giganti; e in questo caso il finale non è il medesimo dell’epica battaglia tra Davide e Golia.
Ma l’articolo di oggi non tratterà di dispute o cause giudiziarie, di piccoli contro grandi, bensì dei tanti Frank’s life/Truman show a cui assistiamo, senza che ormai ci sconvolgano l’esistenza.
I rotocalchi, una manciata di decenni fa, si accaparravano l’esclusiva su eventi speciali di regnanti, soubrette, cantanti pop e calciatori. Poteva capitare di vedere gli scatti inediti di un nascituro o di un matrimonio “paparazzato” e tutto ciò aveva un non so che di tollerabile.
Il mondo descritto da Orwell, lontano anni luce.
Nemmeno le prime edizioni del Grande Fratello (Big Brother) degli anni 2000 si avvicinavano minimamente a contesti Orwell-Huxleyani.
D’altronde erano ancora gli anni in cui ci portavamo il giornale in bagno e si affittavano le videocassette porno.
Anni luce dall’odierno e scostane Reality Show non-stop.
Il degenero ha avuto la sua manifestazione più accentuata dalla combinata smartphone-social network, gli uni i parassiti degli altri. E noi gli esseri viventi da cui attingono la linfa vitale.
Per quanto riguarda i casi di Frank’s life/Truman show, ci tengo per pudore a non esplicitare nomi e cognomi da prendere come esempio, sono sicuro che possiate comprendere e che sappiate sforzarvi di pensare a svariati celebri casi di vostra conoscenza.
Elenco il modo di agire classico, sommario ma quanto più esplicativo, augurandomi di non stereotipare.
Fase 1 – Il tutto ha inizio con la foto del test di gravidanza positivo. Ben inquadrate le due tacchette del display e prontamente postate su Instagram e Facebook.
Fase 2 – Segue, mese per mese, foto per foto, la rassegna del pancione e delle ecografie.
Fase 3 – Come la fisiologia vuole da millenni, viene il momento del parto. Asciugati i sudori e avvolto il pargoletto, il primo pensiero è rivolto alla foto da fare e da postare. “Benvenuto al mondo piccolo mio”.
(Sto povero disgraziato non ha avuto ancora modo di lanciare il suo secondo gemito che già si trova in rete, un punto di non ritorno. Schedato e studiato dagli algoritmi).
Fase 4 – La prima poppata, il primo bagnetto, la prima pappa, i primi gattoni, le prime parole. Tutte catalogate.
Sappiamo tutto di quel neonato. Nei casi dei personaggi più “influenti” la storia e la vita di quel piccolo si fa tremendamente avvincente. Invidiamo quel bambino perché ha un’infanzia contorniata da tutto quello che avremmo sempre voluto. Disneyland, una piccola Ferrari su misura, dei vestiti griffati e delle feste di compleanno pazzesche con torte preparate da pasticceri stellati.
Quel bimbo è inconsapevole di essere una piccola star ma noi, con un mutuo sulle spalle e una calvizie precoce, sappiamo tutto di lui. Persino quando si taglia i capelli o va per la prima volta dal dentista.
Ma davvero tutto questo ci appaga?
Davvero i genitori di questo bambino, pensano di avere sotto controllo la situazione? È la scelta giusta o l’ondata di un confusionario momento storico-sociale?
Le foto rubate da certi mercenari paparazzi impiccioni e rifilate ai rotocalchi, quella manciata di decenni fa, turbavano meno la privacy. Non avevano la stessa incidenza dimensionale. Si fermavano lì. Schiacciate su carta e cestinate la settimana dopo.
Essere arrivati al punto di svendere la propria intimità, la propria privacy, in modo peggiore di quanto possa farlo un estraneo è veramente qualcosa di Orwell-Huxleyiano. O Freudiano.
Non sappiamo ancora come sarà il mondo di domani sotto questo punto di vista, se peggiore o migliore di oggi (mi auguro migliore). E proprio per questo è avventato e sprovveduto giocare con l’immagine e la vita dei nostri figli quasi fossero dei pupazzi o sacrifici da offrire all’altare di Dio Internet.
Bisogna sottolineare una volta per tutte il non possesso che abbiamo sui nostri discendenti una volta generati. In quanto non possessori, è doveroso esimersi dal ruolo di infanti capricciosi.
Di recente è accaduto di un caso giudiziario in cui il figlio (al tempo, un ventisettenne indiano) ha chiamato in causa i genitori per averlo fatto nascere senza il suo personale consenso. Il caso fa sorridere ma filosoficamente dà anche spunti su cui riflettere.
Se ciò lo considerate solo folle e a suo modo divertente, quanto invece potreste considerare tale, gli svariati casi giudiziari a cui potremmo assistere in futuro, di figli che denunciano i propri genitori per aver fatto di un reality show la loro vita? Trascendendo all’insindacabile diritto al libero arbitrio che dovrebbe appartenere a ognuno di noi.
Questo non lo trovo né folle né divertente. Lo trovo terrificante. E se anche potessi trovarlo folle, lo considererei nella sua accezione peggiore del termine.
“I social ci hanno abituato a sentirci vip. E noi, come i vip, prima mettiamo in piazza la nostra intimità e poi invochiamo la privacy”
Pasquale Braschi
Riccardo Bonsanto