In attesa della riapertura dei cinema, quando la luce del proiettore tornerà a incontrarsi con il buio della sala, non rinunciamo ad ampliare la nostra cultura cinematografica. In questo periodo di isolamento e segregazione, sicuri che ormai abbiate dato fondo a quella lista di film che vi ripromettevate di vedere quando ne aveste avuto il tempo, vi veniamo in soccorso con questa rubrica settimanale di consigli cinematografici. Buio in sala e… buona visione!
The host
Regia: Bong Joon-ho
Catalogo: Netflix
Paese: Corea del Sud
Anno: 2006
A meno che non siate dei cinefili incalliti, avrete scoperto il cinema sudcoreano con Parasite. Come darvi torto? La distribuzione all’estero – in particolare qui in Italia – delle cinematografie orientali ha delle carenze stratosferiche, e spesso e volentieri questi film sono reperibili soltanto in streaming, in versioni piratate a bassa definizione, ovviamente in lingua originale. Sono tattiche rudimentali per gustarsi questo cinema così diverso dal nostro e allo stesso tempo così potente, nel quale si riversano spesso tematiche legate alla politica o alla società, anche nei film che in teoria parlano di tutt’altro, come appunto The Host.
Due scienziati versano nel fiume Han, a Seul, dei recipienti di formaldeide, e sei anni dopo una creatura misteriosa emerge dalle acque divorando i passanti in riva al fiume. In una bancarella lì vicino lavora Park Gang-du, interpretato da Song Kang-ho, l’attore feticcio di Bong Joon-ho, un inetto e incapace, con la propensione all’addormentarsi anche nei momenti meno opportuni. Sua figlia, Hyun-seo, viene afferrata da uno dei tentacoli del mostro e trascinata nel fiume Han. Il padre, il nonno e gli zii la piangono, ma durante la notte il cellulare di Park Gang-du squilla, e dall’altro capo c’è proprio Hyun-seo, chissà come sopravvissuta al mostro, prigioniera nella sua tana…
A leggere la trama salta subito agli occhi la tematica ambientalista, legata all’inquinamento delle acque e poi ripresa in Okja (2017), ma anche l’inefficienza della polizia coreana, che non riesce a catturare la famiglia di Hyun-seo e che è subordinata all’intervento statunitense, con alcuni echi dal più lontano Memories of murder (2003), e infine la lotta di classe, poi ripresa nei successivi Snowpiercer (2013) e portata all’estremo in Parasite. Denuncia, dramma, commedia, azione, orrore, in The Host tutto si intreccia e compenetra, producendo un connubio di generi che chiamare intrattenimento sarebbe riduttivo. Si ride, si piange e si salta sulla sedia, e fino all’ultimo si rimane con il fiato sospeso. Non è un monster-movie qualsiasi, alla Godzilla, ma è un film d’autore, con inquadrature superbe e scene mozzafiato (come il primo attacco del mostro). Bong Joon-ho è un grande regista, e anche un grandissimo sceneggiatore. E quello che potrebbe essere scambiato per un banale b-movie è in realtà una piccola gemma, che non ha nulla da invidiare ai prodotti americani (nemmeno gli effetti speciali).
La vittoria di Parasite agli Oscar è stata rivoluzionaria, e ha mischiato le carte in tavola. O forse le ha semplicemente scoperte, chissà. Nei mesi successivi è partita al cinema Massimo la rassegna Bong Joon-Ho, e anche in televisione hanno iniziato a trasmettere più film orientali. Probabilmente, visto il successo internazionale del film, inizieranno a girare più soldi tra i distributori, e nei prossimi anni sarà più facile reperire questi film sudcoreani. O forse è soltanto un’utopia. In ogni caso incrociamo le dita.
Il cattivo tenente
Regia: Abel Ferrara
Catalogo: Amazon Prime
Paese: U.S.A.
Anno: 1992
«I vampiri sono fortunati, si nutrono degli esseri che trovano. Noi, invece, divoriamo noi stessi. Dobbiamo mangiare le nostre gambe per trovare la forza di camminare. Dobbiamo arrivare, per poter andare via. Dobbiamo succhiarci fino in fondo, dobbiamo divorarci da soli. Finché non ci resta nient’altro che la fame…». Questa frase di Zoë Lund, già protagonista per Abel Ferrara di L’angelo della vendetta (e per questo film addirittura sceneggiatrice, dato che l’abituale collaboratore di Ferrara, Nicholas St. John, si tirò indietro davanti agli argomenti scabrosi e immorali portati in scena), descrive con poche parole il film, un vero e proprio pedinamento di un poliziotto senza nome, corrotto, drogato, alcolizzato, dipendente dalle scommesse e che abusa quotidianamente del suo potere perché tanto «nessuno mi può uccidere, sono benedetto. Sono un fottuto cattolico».
Un pedinamento, come detto, seguendolo nella sua personale caduta negli inferi, e poi la redenzione. Perché il Cattivo tenete ha tutti, ma proprio tutti i difetti di questo mondo, ma forse un pregio (se si può considerare tale): è un fervente cattolico. L’aggressione e lo stupro di una suora, profanata in chiesa dal alcuni ragazzi che lei addirittura conosce, e il suo perdono verso chi l’ha oltraggiata, mettono in moto qualcosa nella mente cinica del tenente, interpretato da uno stratosferico Harvey Keitel (anche se inizialmente avrebbe dovuto essere Christopher Walken). Tante domande, poche risposte: come ha fatto la suora, in un mondo come questo, a perdonare un simile gesto mentre lui, il Cattivo tenente, non riesce nemmeno a perdonare sé stesso e ad uscire da quella spirale di droghe e decadenza? (a tal proposito esistono due versioni del film, che si contendono tre minuti forti ma terribilmente poetici: un’inquadratura statica di Keitel accasciato su una sedia, mentre Zoë Lund, china su di lui con una siringa in mano, gli inietta nel braccio l’eroina, con la sostanza che lentamente si mischia al sangue). A scandire questo percorso di caduta e redenzione, le partite dei Mets contro i Dodgers e numerose immagini sacre e profane che contraddistinguono la filmografia del “regista maledetto”, come l’apparizione di Gesù Cristo interpretato da Paul Hipp (amico e collaboratore di Ferrara) o la famosissima scena in cui Harvey Keitel, completamente nudo, apre le braccia e piange, formando con il corpo una croce avvolta dall’ombra.
Il film ricorda molto i primi film di Scorsese come Man Streets, e lo stesso Scorsese in un’intervista lo definì «uno dei dieci film più importanti degli anni Novanta». Il film fece scalpore all’epoca per le tematiche trattate e con gli anni divenne un cult; d’altra parte, da un regista che ha esordito con un porno, non ci si aspetterebbe di meglio.
Sacco e Vanzetti
Regia: Giuliano Montaldo
Catalogo: Raiplay
Paese: Italia, Francia
Anno: 1971
Anni ’20, Stati Uniti d’America. In Massachusetts vengono arrestati Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, entrambi italiani, entrambi immigrati in America, entrambi anarchici. Dopo un processo farsa, verranno condannati a morte per una rapina che non hanno commesso, come rappresaglia verso i movimenti anarchici e operai di quell’epoca, oltre che verso gli italiani, vittime del razzismo statunitense.
Pochi film possono vantare un’importanza storico-politica pari a quella di Sacco e Vanzetti, un’opera che contribuì significativamente alla riabilitazione pubblica dei due anarchici, avvenuta solo nel 1977 (esattamente cinquant’anni dalla sentenza di morte) da parte dell’allora governatore del Massachusetts Michael Dukakis. Per dare un’idea dell’impatto sociale di questa pellicola, basti dire che lo stesso regista venne invitato alla cerimonia di riabilitazione « per aver contribuito a essa ».
Rinunciando all’approfondimento psicologico e personale, Montaldo si concentra invece sul processo, nel tentativo di esplicitare le cause che portarono all’ingiusta condanna a morte: il terrore dei ricchi padroni delle fabbriche verso i movimenti dei lavoratori e i sindacati a cui era necessario porre un freno, il profondo razzismo WASP verso tutti gli immigrati, considerati inferiori e incapaci di adattarsi alle comuni norme di “civiltà” o presunta tale, la profonda ipocrisia di un paese che si definisce democratico, ma che si rivela corrotto e repressivo quanto una qualsiasi dittatura, oppressore coi deboli e servo con i potenti. Tutti questi elementi contribuiranno a fare di Sacco e Vanzetti i capri espiatori perfetti.
L’interpretazione come sempre magistrale di Gian Maria Volonté (Bartolomeo Vanzetti) è qui degnamente accompagnata da quella del co-protagonista Riccardo Cucciolla (Nicola Sacco), il quale grazie ad essa vinse anche il premio per miglior interpretazione maschile a Cannes. Il momento più memorabile del film rimane tuttavia il monologo finale di Vanzetti, il quale in un primo momento tenterà inutilmente di ottenere la grazia, pentendosene successivamente e lodando invece l’integrità Sacco, che rifiuta da subito di piegarsi ad una narrazione di colpevolezza che sa essere fasulla. Le sue ultime parole, prima che la sentenza venga eseguita, saranno al contempo sia una dichiarazione di innocenza, verso il crimine di cui lo accusano, sia di colpevolezza verso ciò per cui veramente lo stanno condannando: il crimine di essere un anarchico, di combattere cioè il crimine più grave, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Un film estremamente politico, figlio del fermento sociale di quell’epoca sia nella forma che nel contenuto, una pellicola che parla di storia e al contempo ha fatto la storia, ancora attualissimo nonostante parli di eventi di ormai cento anni fa. Impreziosito dalla colonna sonora di Ennio Morricone, Sacco e Vanzetti è un capolavoro del cinema italiano di cui nessun cinefilo può fare a meno: se l’avete già visto correte a rivederlo, se non l’avete mai visto rimediate al più presto.
A cura di Pietro Pedrazzoli e Lorenzo Zaccagnini