Legambiente e Fridays For Future scrivono al governo e agli amministratori locali per sollecitare politiche ecologiche per tutelare la salute e l’ambiente in cui viviamo. Ci sono, altresì, indicatori che lasciano presagire un rallentamento delle suddette politiche, ma lo scenario rimane aperto
«Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema» gridano forte gli spagnoli, dando così vita ad un motto in grado di rimbalzare rapidamente sul web. «Non restituiteci le vecchie città» chiedono a gran voce i volontari di Legambiente attraverso una lettera indirizzata ai sindaci delle quasi ottomila città italiane. «Non possiamo permetterci di tornare al passato. Dobbiamo guardare avanti e preparare il nostro Ritorno al Futuro!» fanno eco i giovani del movimento globale Fridays For Future tramite un appello sottoscritto da ricercatori, scienziati, professori e climatologi mentre annunciano lo sciopero digitale di venerdì 24 aprile.
A fine marzo, sul quotidiano online indipendente spagnolo El Diario è comparso un articolo firmato dallo sceneggiatore e studioso del cinema Ángel Luis Lara; all’interno dell’articolo, tradotto e ripreso a inizio aprile su ilManifesto, l’autore cita un libro del 2008 intitolato “Biopolitique des catastrophes” (biopolitica delle catastrofi) del francese Frédéric Neyrat.
La dissertazione di Neyrat è lunga, dettagliata e approfondita, ma l’argomento centrale ruota attorno due premesse: 1) le catastrofi implicano un’interruzione disastrosa in grado di sommergere il presunto corso normale dell’esistenza e 2) ogni catastrofe ha sempre una storia, un’origine, una causalità. Ognuno di noi interpreterà gli effetti di questa pandemia e della crisi economica che ne seguirà in chiave più o meno catastrofista, come sempre accade quando si verificano eventi spartiacque (come la Brexit che avrebbe dovuto distruggere l’economia inglese o l’elezione di Trump che avrebbe potuto scatenare un nuovo conflitto mondiale); ma anche il più fermo tra gli ottimisti non potrà che riconoscere un fondo di verità nelle tesi di Neyrat, ad ogni paragrafo via via sempre più illuminanti: «oltre alle caratteristiche biologiche intrinseche dello stesso coronavirus, le condizioni della sua propagazione includono gli effetti di quattro decenni di politiche neoliberiste che hanno eroso drammaticamente le infrastrutture sociali che aiutano a sostenere la vita. Da giorni circolano nelle reti sociali e nei telefoni mobili testimonianze del personale sanitario che sta combattendo con la pandemia negli ospedali. Molti coincidono con la descrizione di una condizione generale catastrofica caratterizzata da una drammatica mancanza di risorse e di personale sanitario». E, infine, il giudizio finale: «Il neoliberismo e i suoi agenti politici hanno seminato su di noi temporali che un microorganismo ha trasformato in tempesta».
Alla luce di queste parole assumono senso e significato le richieste che a gran voce si levano dai movimenti ambientalisti ed ecologisti: pensare al Coronavirus come ad un fenomeno isolato, privo di qualunque contesto sociale, economico e culturale vuol dire ignorare le cause che hanno dato vita a questa “catastrofe”, ignorare quei “temporali” preludio della tempesta.
E come disinnescare il ripetersi di questi errori?
Ogni crisi nasconde sempre un’ambivalenza di fondo, perché ad ogni momento di rottura si accompagna l’opportunità di trasformare domande sociali (e non solo) in rivendicazioni e conquiste politiche. Così Legambiente chiede sicurezza e investimenti nel trasporto pubblico, un maggior impegno per lo sviluppo di infrastrutture in grado di agevolare e incentivare l’utilizzo della bicicletta come mezzo di trasporto, nonché la sharing mobility e la mobilità sostenibile; centomila medici scrivono al Governo chiedendo il potenziamento dell’attività sanitaria territoriale, sollecitando il pubblico a farsi carico di questa responsabilità; lavoratori di tutt’Italia condividono ansie, preoccupazioni, difficoltà e paure per il futuro, sino a tradurre le loro richieste in atti concreti o scioperi (come il recente caso dello stabilimento Amazon di Torrazza).
Le opportunità sono innegabilmente molte ed è quindi più che motivato l’ottimismo in chi vede questa pandemia e la crisi che ne seguirà come un’opportunità per ripensare il modello di sviluppo e accelerare processi di trasformazione ecologica già in atto.
Sarebbe, tuttavia, sciocco credere che buona parte del mondo non voglia tornare alla normalità. Ci sono buone ragioni per pensare, invece, che sia proprio vero l’opposto e cioè che la maggior parte delle persone e delle aziende voglia tornare alla normalità: tornare a fare i propri interessi, a consumare e spendere come si è sempre fatto, a vivere la vita di tutti i giorni.
Sarà forse scontato, ma c’è chi su quella normalità ha sempre contato per trarne profitto e benefici. La crisi del 2008 avrebbe dovuto tradursi in un cambio di mentalità e, invece, il maggior prodotto di cui ancor oggi paghiamo il conto è stata l’austerity e l’assalto allo Stato sociale depauperato ogni giorno di più. Cosa ci fa pensare che questa volta dovrebbe essere diverso?
D’altronde gli elementi per rendersi conto che è già cominciata l’offensiva alle politiche green da parte di quelle realtà culturalmente più produttiviste e legate all’idea “più consumi purchessia” ci sono tutti.
Il 7 marzo, a inizio quarantena, l’assessore regionale al Lavoro della Regione Piemonte Elena Chiorino e la giunta Cirio inviarono al Governo la richiesta di immediata sospensione per tutto il 2020 della “plastic tax” e della “sugar tax”, motivando: «Le nostre imprese che lavorano con materiali plastici, dalla produzione, al riciclaggio, fino all’imbottigliamento non possono, soprattutto in questo momento, pagare un prezzo così elevato. L’Esecutivo metta da parte le ideologie e revochi i provvedimenti. L’antidoto per le imprese e il lavoro c’è già e si chiama patriottismo industriale».
In America, approfittando della necessità di osservare regole igieniche più scrupolose, le industrie produttrici di plastica stanno alimentando una campagna contro le borse riutilizzabili in quanto favorirebbero la diffusione del virus (a differenza di quelle usa e getta). A prescindere dal reale valore scientifico di quest’argomentazione (poco convincente), la settimana scorsa la Plastics Industry Association ha mandato una lettera al ministero della Salute americano per chiedere che prenda posizione contro i disegni di legge per vietare l’uso dei sacchetti di plastica monouso e diversi Stati hanno accolto le richieste rinviando disegni di legge locali o imponendo l’uso di sacchetti monouso.
Nell’articolo pubblicato su questo giornale dal titolo “Il cibo, il virus e la nostra salute” veniva citato l’intervento di Fabrizio Garbarino, presidente di Ari (Associazione Rurale Italiana): «In queste settimane abbiamo avuto l’ennesima riprova del peso dominante dell’agroindustria nelle politiche del Governo. Salvo rare, ma importanti eccezioni, come la riapertura della vendita al dettaglio nel settore vivaistico, l’unica preoccupazione della Ministra Bellanova è stata quella di spianare la strada all’industria agroalimentare e della distribuzione per la loro riorganizzazione, come se fosse l’unico attore degno di nota della filiera del cibo». Che la Grande Distribuione Organizzata e le industrie agroalimentari che vi si appoggiano per commerciare i loro prodotti sia, in questa fase, in crescita sembra essere confermato dai numeri registrati dall’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare (ISMEA): dal 16 febbraio al 15 marzo nella grande distribuzione organizzata sono stati spesi circa 750 milioni di euro in più rispetto allo stesso periodo del 2019.
A questi esempi potrebbe infine aggiungersi l’intuizione per uno scenario prossimo che in parte può già essere letto nelle parole d’insediamento del neo-presidente di Confindustria Carlo Bonomi, già battezzato “falco” per la sua spiccata invettiva contro il Governo e a favore della necessità di riaprire le aziende: se dovesse prevalere la logica del “tornare a crescere purchèssia” quale amministratore investirà nella green economy? Se già prima della pandemia veder realizzata una ciclovia voleva dire scontrarsi animatamente con le amministrazioni locali poco disposte a impiegare risorse pubbliche per questi progetti, cosa succederà nel momento in cui ci si dovrà confrontare con una crisi lavorativa ed economica?
Nessuna certezza, per il momento. La situazione è in continuo divenire e non sono da escludere avvenimenti che potrebbero incoraggiare o scoraggiare la scelta di politiche ecologiste (come una forte pressione dalla categoria dei medici, infermieri e scienziati per una maggior prevenzione territoriale e un ambiente di vita più sano).
Ciò su cui si può, invece, riflettere è il ruolo e la strategia di azione delle associazioni ambientaliste ed ecologiste. Nel territorio eporediese i migliori traguardi per scongiurare progetti fortemente impattanti o ambientalmente insostenibili sono sempre scaturiti dalla capacità di saper coinvolgere ampie fasce di popolazione e di saper al contempo intrecciare alleanze significative in grado di estendere la partecipazione e di tradurre tutto ciò in un contenuto politico: così è stato per Mediapolis, per il Pirogassificatore di Borgofranco d’Ivrea, per la Centrale del Crist, per la Coop su corso Nigra; anche la rivitalizzazione e riqualificazione del Movicentro è passata attraverso un coinvolgimento ampio in grado, ancor oggi, di legare assieme associazioni diverse e interessi particolari. C’è stato, inoltre, un lungo e proficuo lavoro di buone pratiche, indubbiamente utile per sensibilizzare grandi e più piccoli e per dar vita a presìdi ambientali importanti; ma quanto si può sperare che la strategia delle buone pratiche possa sortire effetti determinanti per imprimere, in questa delicata fase, una pressione politica convincente?
E quale rapporto con le istituzioni e la politica andrà mantenuto per l’immediato futuro? Quale tensione o coinvolgimento andrà mantenuto con i lavoratori e con chi rappresenta il mondo del lavoro?
Il dibattito è aperto e questa è l’occasione giusta per fare un bilancio dei traguardi e di ciò che non ha funzionato nel movimento ambientalista e provare a chiedersi: che ruolo giocheremo nel mondo post-coronavirus?
Andrea Bertolino