Servirà un supporto psicologico terminata l’emergenza Covid-19? Possibile. Ma nel frattempo cosa possiamo fare?
Si sente parlare sempre più spesso della necessità di interventi psicologici una volta che l’emergenza Coronavirus sarà terminata. Credo che vadano posti un paio di distinguo, legati alle situazioni che stiamo vedendo e vivendo. Vi sono in Italia zone molto diverse per intensità e densità di contagiati e di vittime. Nelle zone a maggiore intensità è evidente come il livello di tensione sia maggiore, la paura di contagio più elevata, i drammi quotidiani vissuti in modo diretto. Un’altra precisazione va posta in merito all’intensità emotiva con cui stiamo vivendo questi giorni: vi sono situazioni di convivenza difficile o di angoscia per ciò che sta capitando o di solitudine, altre ancora traumatiche (mi riferisco alle morti in ospedale, senza il conforto dei famigliari), ai vissuti dei professionisti del sanitario che sono in prima linea e, oltre alla fatica psicofisica, alla preoccupazione per se stessi e i familiari di rischio contagio, vivono situazioni drammatiche sul posto di lavoro. E’ indubbio che chi ha vissuto la perdita di un familiare (in genere un genitore) senza sapere dove fosse, come abbia terminato la sua esistenza, senza essersi potuto occupare della salma, senza aver potuto celebrare il funerale con tutti i suoi rituali e il potere di elaborazione che ha in sé, si troverà sulle spalle un grave fardello e sentirà, probabilmente, la necessità di un supporto psicologico. Così come chi, dall’altra parte, ha dovuto accompagnare i malati all’estremo saluto, o vivere le sofferenze, incrociare sguardi disperati, compiere scelte estreme, fungere da ambasciatore degli ultimi messaggi tra il malato in ospedale e i familiari a casa. Esperienze decisamente forti e traumatiche, che avranno molto probabilmente bisogno di spazi e momenti di ascolto e di rielaborazione.
Si può agire fin da subito
Ma vi sono tutta una serie di altre situazioni, e sono la stragrande maggioranza, per le quali è possibile agire qualcosa fin da subito, senza attendere la fine dell’emergenza. E non mi riferisco al fatto di chiedere un aiuto fin da subito, strumento ovviamente sempre disponibile, seppur a distanza. Abbiamo l’atteggiamento, proprio durante questa fase di isolamento, di convivenza forzata, di guardare sempre il dopo, oltre la fine, senza mai soffermarsi su quello che stiamo vivendo. E così ragioniamo anche rispetto al sostegno psicologico. Ne avrò bisogno, dopo. Sì ma oggi, cosa posso fare per me? Per evitare di rivolgermi ad un professionista quando sarò in condizioni pessime? Sarà il mio un approccio controtendenza o “controinteressi” di categoria, ma credo fortemente in un lavoro di prevenzione, svolto a livello individuale, contagiando, in positivo, i componenti della famiglia. Un’attenzione al benessere personale e famigliare. Un primo passo è riuscire a mettere parola, con altri adulti (il partner, gli amici), su ciò che ci sta capitando e come noi lo stiamo vivendo. Abbiamo da un lato l’obbligo di proteggere i figli, dall’altro il dovere di tutelare noi stessi. Un primo rischio è di caricarci tutto sulle spalle, di celare quello che stiamo provando, di tenere dentro di noi le preoccupazioni (di salute, per noi e per altri, economiche, lavorative, ecc) che stiamo vivendo. Occorre trovare il giusto equilibrio fra la tutela di noi stessi e quella dei nostri figli, fra quanto va condiviso e quanto no. La condivisione con altri adulti.
Con-dividere significa mettere in comune
Oggi abbiamo anche l’opportunità di condivisione a distanza, che, con i dovuti accorgimenti, si può tramutare in momenti di estrema vicinanza. Con-dividere significa mettere in comune.
Rende forse meglio l’idea di condivisione il verbo spagnolo “compartimos”, in quanto dà maggiormente l’idea di “fare parte”, mentre in italiano dà più l’idea della divisione. Però il senso è di mettere in comunione il sentire dell’uno con quello dell’altro, trovare delle risonanze emotive nello scambio. Poter sentire di avere qualcuno emotivamente vicino in un momento delicato, nonché incerto e quindi fonte di preoccupazioni. Qualcuno che sente e prova quello che stiamo provando noi o verso il quale possiamo comunque manifestare il sentire di questi giorni. Un secondo passo può essere vivere il momento, riuscire a dare valore alla situazione che si è creata. Accettarla, ma non subirla. Accettare una situazione non significa abbassare il capo. Significa riuscire a dare un senso a ciò che ci è capitato. Non parlo di un senso filosofico, divino o esistenziale, ma semplicemente riuscire a vedere delle opportunità quali la vicinanza con i figli, la cura di noi stessi e dei nostri interessi, la cura dei legami con persone care, ma che avevamo trascurato. Un terzo spunto potrebbe essere quello di lasciare degli ancoraggi temporali di ciò che stiamo vivendo.
La sensazione di questi giorni è di avere messo un paletto ad una certa data, identificata come la fine del tunnel, mentre viaggiamo a fari spenti guardando solo la luce al fondo. L’invito è invece quello di accendere i fari e di vedere quello che c’è nel tunnel. Non solo, ma di lasciare traccia del nostro passaggio: non sappiamo bene quando tutto ciò è iniziato, da quando siamo a casa, per che giorno viviamo. Rischiamo così di stare in un tempo sospeso per poi tornare in una dimensione nuovamente e fortemente scandita dal tempo. Così facendo usciremo dal tunnel, ma con un buco alle spalle, un vuoto temporale, che rischia di inghiottirci, nel tempo. Volevamo fuggire, scappare e rischiamo di esserne risucchiati. Il lavoro quotidiano da intraprendere può essere la scansione temporale, ricordando i giorni che stiamo vivendo, dando loro semplicemente il nome, leggendo il quotidiano (che non comperiamo più, essendo tutto on line e leggendo articoli qua e là), scrivendo un mini diario (attività che potrebbe anche diventare di famiglia e aiutarci anche quando lo rileggeremo), facendo un album fotografico di questi giorni, inventandoci e scrivendo un gioco al giorno, una ricetta al giorno, un pensiero al giorno, ecc.
Se poi ci sarà bisogno di un sostegno, ben venga, ma lo si farà con un’adeguata consapevolezza di ciò che abbiamo passato, del tunnel che abbiamo attraversato. Con le luci accese.
Massimo Giugler, Psicologo clinico – Studio Sigrè –