Il film evento del leader dei Pink Floyd proiettato a Biella
Nello sprofondo della provincia piemontese, in una serata che annuncia l’autunno, occorre decidere se per assistere al film evento devo andare a Torino, 40 km circa dalla magione, oppure scollinare per raggiungere Biella. Decido per Biella, che dista appena una trentina di chilometri. Il film, con Roger Waters, è visibile solo per tre giorni secondo quell’astuta trovata del marketing per cui si mette fretta agli spettatori spingendoli al botteghino.
I furbacchioni del rock e i loro agenti sanno come far girare le baracca milionaria, tam tam pubblicitario e clima da “ora o mai più”. E così le vecchie anime hippies degli anni sessanta, incanutite e imborghesite, sganciano il prezzo del biglietto quasi tre volte superiore a quello di una tariffa normale, per assistere, insieme a qualche giovane dominato dal cellulare, a questa operazione cinematografica di difficile definizione. Il film non appartiene infatti né al genere del documentario né a quello della fiction né tanto meno rappresenta un mix tra le due cose. Ciò che vediamo è la registrazione di un concerto, in quella che è stata una delle tappe, esattamente quella di Amsterdam, del tour mondiale effettuato da Waters e dal suo gruppo, a cavallo tra il 2017 e il 2018.
Blanditi dalle critiche favorevoli, che il film ha riscosso al festival di Venezia, illusi dalle generalizzazioni giornalistiche che sembravano prospettare un’opera inconsueta e dal carattere itinerante sulla tournèe, gli spettatori si sono invece trovati all’interno di uno stadio, immersi in due ore di spettacolo tra vecchie e nuove canzoni presentate come in un interminabile videoclip. D’altronde, a pensarci bene, questo non era un film sulla vita di una rockstar e sui Pink Floyd, ma un film di Waters, coprodotto da lui e da lui firmato insieme al regista Sean Evans già autore del precedente: “Rogers Water: The wall”.
Una realizzazione intesa ad alimentare l’opera e la fama del noto bassista e a rinsaldare il legame tra vecchi e nuovi fans dei Pink Floyd in un presente di rinnovate emozioni. Alle spalle del gruppo uno schermo di settanta metri fa da sfondo alla performance così che chi si muove sul palco staglia la sua figura in un gioco di integrazione con le immagini proiettate, immagini in linea con la filosofia e visione umanitaria di Waters.
Nel senso delle inquadrature, il film è una sinfonia visiva, una trama di contenuti musicali e di testi eccellenti e di cui, purtroppo, se non si conosce bene l’inglese, si intuisce solo il significato. La sottotitolatura, con la traduzione in italiano, non avrebbe nuociuto anche se, in alcuni casi, in cui è stata utilizzata, non concedeva il tempo necessario alla lettura. Ci sono poi gli effetti speciali, i primi piani del pubblico, volti di ragazze euforiche ed estasiate con il condimento emotivo di qualche lacrima. Poi, sopra le teste degli spettatori si materializza anche la sagoma di un maiale gonfiabile. C’è una scritta che ne attraversa il corpo e che recita: “Restiamo umani”. L’invito esplicito è quello di non diventare “maiali” come i governatori del mondo che lo saccheggiano. Il rock, oggi come un tempo, sembra conservare il potere salvifico e rivoluzionario del cambiamento universale. Io, provinciale di sessantottina generazione, oggi più abbarbicato ai dubbi e meno allettato dai sogni, mi chiedo semplicemente perché questo animale, dalla coda ricciolina, sia così impietosamente sfruttato tanto dal punto di vista materiale come valore proteico, quanto da quello metaforico come simbolo della perversione comportamentale.
Sul palco il cantante che evoca, almeno nell’aspetto, David Gilmour, l’altra anima principe dei Pink Floyd, non sembra dotato di una voce particolare, ma incarna lo spirito del rock, la figura del cavaliere dai lunghi capelli, eroe con la chitarra che sa redimere il mondo. Questo stereotipo consolidato ha fatto imbracciare questo strumento a milioni di aspiranti rockstar aprendo loro la porta dei sogni. Sulla scena danzano e percuotono i timpani anche due coriste che si muovono all’unisono non senza apparire, a tratti, un pò ridicole. Di loro si nota soprattutto il trucco degli occhi, visibilmente ispirato alla regina del Nilo Cleopatra.
Tecnicamente il 4k delle riprese le rende ineguagliabili in termini di nitidezza e definizione, ma il film non mi convince e resta, a mio avviso, complessivamente meno riuscito del precedente di Rogers. Le scelte di regia non sono sempre azzeccate a partire dal finale dove si tenta un ricupero di invenzione con la coda di uno stringato “dietro le quinte” buttato lì come semplice diversivo.
Manca qualcosa e forse questa assenza sta proprio nella pervasiva onnipresenza di Rogers.
Bersagliato dai primi piani, il corpo scarnito, jeans e maglietta girocollo nel nero di ordinanza, la sua figura si mette al centro di un protagonismo troppo accentuato. Maturando questa impressione, a forza di guardarlo attraverso ogni angolatura, mi pare di cogliere in lui una seppur vaga assomiglianza con un eventuale fratello maggiore di Richard Gere.
L’ossuto Waters sembra voler incarnare, da solo, tutta l’avventura musicale dei Pink Floyd e questo a noi, che siamo stati giovani ai suoi tempi, non va bene. Di riflesso pensiamo a Gilmour e agli altri Pink del passato, elementi altrettanto portanti di una band che ha scritto la storia del rock.
La musica dei Pink Foyd non sta solo nei virtuosismi e nel carisma del grande bassista, il quale, grottescamente e impensatamente, a fine concerto si rivela come un colosso dai piedi d’argilla.
La cosa si evidenzia quando l’artista, terrorizzato dai germi, è riluttante a stringere le mani dei suoi fans. Il rivoluzionario, dalle parole profonde e dai suoni spaziali, inciampa nel gradino delle sue debolezze. Siamo di fronte al lato oscuro della luna, l’altra faccia del mito che racconta l’ombra di una deludente realtà.
Pierangelo Scala