Friday for future. 27 settembre a Torino: giovani, e anche vecchi, in corteo
Volendo, dopo un’ora e mezza così – a ciondolare in Piazza Statuto davanti al monumento del Traforo senza manco capire se esista una testa del corteo – uno potrebbe cominciare a inveire contro ‘sti inetti figli di mammà nemmeno in grado di intruppare i manifestanti, e unirsi così al coro dei Feltri, dei Belpietro, dei Giordano, perfino dei Cacciari: parlare di Greta invece che di devastazione – la vecchia storia del dito e la luna –, inveire contro chi abbandona i banchi per la piazza, giudicare chi sceglie la protesta in luogo dei gruppi di discussione (come se l’una escludesse gli altri).
E’ che i ragazzi dei duemila per il momento son così: più spontanei che organizzati, più ammassati che ordinati, più decisi che determinati, più stizziti che arrabbiati. Sorridono poliziotti e carabinieri, rilassati a godersi la pace sociale, forse in corteo ci sono i loro figli. E comunque il ministro ha benedetto lo sciopero, con ciò togliendo un po’ di gusto a tutti – studenti, professori e vecchi ambientalisti – e mettendo in imbarazzo i dirigenti scolastici, spesso indifferenti, talora innamorati del loro ruolo al punto di organizzare consigli di classe proprio venerdì 27, alla facciaccia di chi coniuga impegno in classe e coscienza ecologista.
I ragazzi son così, ma alla fine il serpentone parte e va, adesso abbastanza deciso ma all’apparenza poco organico, tanto che i veterani della protesta anni ‘70-’80-’90, quelli che di manifestazioni ne han fatte a decine o centinaia, cominciano a porsi domande: chi parlerà in Piazza Castello? Si rimanderà a un appuntamento preciso? Quali saranno le parole d’ordine? Cosa prevede il cervello del movimento? Ci sarà un concerto?
Educati questi studenti, educati e puliti: nessuno alza la voce, niente slogan, cartelli molto artigianali e perlopiù in inglese, pochi striscioni, bimbi per mano ai genitori o sulle spalle di fratelli più grandi; qualcuno percorre il corteo – guanti di lattice e busta trasparente – a raccogliere da terra cicche e pezzi di carta, la protesta lascia strade pulite. Un gruppo di ragazze, ciascuna con indosso una lettera, cerca di comporre una frase ma no: non ce la fanno, la frase resta un tentativo e un interrogativo: che avran voluto dire?
Qualcuno incazzuso c’è. Ed è la vecchia guardia, professori che han scioperato nonostante muri di abulia e collegi docenti sonnacchiosi, pensionati che, inascoltati, han visto e vedono i colpevoli all’opera: non proprio Lo Stato si abbatte non si cambia ma qualcosa che rimanda alla rivolta, al sistema da sconfiggere affinché il clima possa cambiare, alla mercificazione, allo sfruttamento del lavoro, a una lotta che unisce nuovo e vecchio (e chissà dove sono i no Tav, questo sarebbe il loro pane).
Ammodo e silenziosi anche loro, l’atmosfera è quella e chi si volta indietro è perduto: è un attimo ritrovarsi vecchi scettici inaciditi o rassegnati.
Piazza Castello: zero comizi, niente concerti, nemmeno un cartello con scritto The end. Il corteo semplicemente si sfalda, si liquefà, si consuma a mo’ di candela.
I ragazzi son così. E’ stato bello, dicono già chini sullo smartphone.
Ci vuole un piano, borbottano tra loro gli indomiti nostalgici della lotta di classe. ‘Ché il sistema fa in fretta a divorarti, digerirti e trasformarti nell’icona della prossima automobile elettrica, blandirti e poi issarti sulla bandiera di un treno molto veloce.
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