Al Liceo Gramsci di Ivrea il 2 dicembre scorso
Maria Belen Beltran Mena è un’allieva del liceo scientifico ‘Gramsci’ di Ivrea. È una delle studentesse che, grazie a Intercultura, hanno la possibilità di proseguire gli studi liceali in Paesi diversi da quello d’origine. E ciò non solo per imparare una nuova lingua, ma soprattutto per conoscere culture, persone e realtà scolastiche differenti.
Per Belen, però, la scelta dell’Italia, e quindi di Ivrea, ha avuto delle ragioni particolari, più profonde, per non dire personali. Belen arriva dal nord dell’Argentina, da San Miguel de Tucumán. L’anno scorso, a partire dalla lettura di Se questo è un uomo di Primo Levi, assieme con altre compagne del suo liceo argentino ha svolto una ricerca sui desaparecidos. In particolare su quegli studenti liceali che nei sette anni della dittatura di Videla (1976-1983) sparirono nel nulla a causa della loro opposizione al regime videliano. Un regime che si era insediato con un colpo di stato militare il 24 marzo 1976, e col quale venne spodestata Isabela Peron. Questa loro ricerca è stata pubblicata in Argentina e Belen ci ha detto che presto ne regalerà una copia anche al nostro liceo.
Attualmente frequenta la classe quinta I e fra qualche giorno (martedì 6 dicembre) dovrà ritornare in Argentina. Prima di partire, però, con il sostegno assiduo e affettuoso della sua professoressa di storia e filosofia, Bruna Mino, ha deciso di lasciare una testimonianza di quell’episodio storico, proponendone una versione personale (con commenti, documenti fotografici, filmati e musiche) per la Giornata della Memoria, anticipata quest’anno al 2 dicembre, proprio a causa della sua partenza imminente.
In un italiano fluente e quasi perfetto, nella sua esposizione Belen ha evidenziato i sistemi di eliminazione e di tortura cui venivano sottoposti gli oppositori. Sistemi con i quali vennero liquidate più di 30 mila persone. Sistemi che accomunano tutti quei governi autoritari e militaristi che si affermarono tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del secolo scorso. Basti pensare alla dittatura dei colonnelli in Grecia (1967-1974) o a quella di Pinochet in Cile (1973-1990) – il dittatore che fece assassinare Salvador Allende nel 1973, primo presidente marxista democraticamente eletto nel 1970. Per non parlare del Nicaragua di Somoza, a cui si opposero i sandinisti di Daniel Ortega dal 1978 al 1990, i quali (riforniti dai sovietici) furono costretti a vedersela con i Contras sostenuti dagli Usa di Reagan. Per finanziare i Contras, malgrado vi fosse l’embargo contro l’Iran a seguito della rivoluzione khomeinista del 1979, Reagan vendeva all’insaputa del Congresso armi a Hezbollah per il rilascio di alcuni prigionieri statunitensi. È il famoso Irangate. Sempre il presidente Reagan, in Salvador, nel 1980, fece leva su Honduras e Guatemala per schiacciare i governi democraticamente eletti.
Ciò per dire che come molte delle altre storie riguardanti vittime cadute sotto le dittature o semi-dittature impostesi in quegli anni in Occidente – come pure in Medioriente (si pensi all’annoso conflitto arabo-israeliano o a quello tra Iran e Iraq), per non parlare ovviamente della guerra del Vietnam in Estremo Oriente (durata vent’anni e cessata nel 1975, anno in cui si esaurisce, peraltro, dopo 36 anni, il regime franchista in Spagna), – anche la storia dei desaparecidos si colloca all’interno di una storia più ampia: quella della guerra fredda tra Usa e Urss. Le torture connaturate al sistema oppressivo cui fa cenno Belen sono contemplate sia dalla superpotenza sovietica, in quasi tutti gli Stati dell’est-Europa, sia da quella americana: i cavi legati ai testicoli di persone con i piedi immersi nell’acqua si sono rivisti scandalosamente anche all’indomani dell’11 settembre, nel 2002, sia nella prigione cubana di Guantánamo, sia, nel 2004, nella prigione irachena di Abu Ghraib. Ma per non essere da meno, anche l’Italia democratica, il 21 luglio del 2001, ha provato a istituzionalizzare la tortura, sperimentandola sui manifestanti nei locali della scuola Diaz di Genova durante il G8.
L’Argentina, inoltre, come sappiamo (la ministra Boschi lo sa), è stata terra d’emigrazione. Specie di Italiani, tra Otto e Novecento. E molti furono i creoli italiani che caddero sotto i colpi della dittatura di Videla. Talvolta, a seguito del rinvenimento di qualche fossa comune, si riesce a trovare qualche frammento di desaparecido e allora diventa straziante per la ragione osservativa pensare che quell’osso possa appartenere veramente a un proprio caro scomparso. Belen ci ha raccontato uno di questi episodi, riportando le parole di una persona che ha perso la propria madre. Ma le madri di Plaza de Mayo non mollano. In esse la ragione non si limita e non si accontenta solo all’osservazione. Si rende attiva. Esige una spiegazione. Da allora, infatti, ogni giovedì pomeriggio tutte quelle madri si ritrovano per una mezz’ora in quella stessa piazza di Buenos Aires per protestare e per rivendicare giustizia e verità sui propri figli scomparsi nel nulla e per sottrarli all’oblio del tempo. È pure successo, tra l’altro, che a trenta o quarant’anni da quei massacri, il figlio di uno delle persone scomparse, attraverso l’esame genetico e biologico di alcuni resti, sia potuto risalire al proprio genitore.
Quanto mai opportuna, dunque, la frase di Primo Levi ricordata dal Presidente dell’Anpi di Ivrea Mario Beiletti: «ogni tempo ha il suo fascismo». Giacché, come si è potuto vedere da questa presentazione davvero suggestiva e particolareggiata di Belen sui desaparecidos argentini e come ha ribadito lo stesso Beiletti nel suo intervento, «il fascismo non è mai finito, è sempre pronto a tornare sotto altre forme». Ecco perché sia l’uno che l’altra, nonostante la differenza d’età, hanno suggerito ai giovani studenti eporediesi un identico consiglio: ossia un maggiore impegno, una più costante attenzione e soprattutto una più fattiva partecipazione alla politica. Un impegno che anche Andrea Gaudino, ex studente del ‘Gramsci’ e ora attivo nel progetto Scu.Ter (Scuola e Territorio), ha riconosciuto e ammirato nella giovane argentina (commossa alla fine della giornata). Quello stesso impegno che, ha detto Andrea, anche Libera mantiene in America Latina. Visto, dunque, quanto sia facile scivolare nelle dittature, hanno consigliato infine ai più di 300 studenti presenti nell’Auditorium del liceo di non fare come in alcuni Stati, sia a Oriente che ad Occidente, dove gli studenti non possono parlare di politica, ma di vigilare e di sviluppare un pensiero critico. E ciò allo scopo che il loro “fare storia” si traduca, come auspicava Ricoeur, non in un semplice “fare politica”, ma in un “fare la storia”. Specialmente quella che è già inscritta e fissata nella nostra Costituzione e che, come un essere ideale in potenza, attende ogni giorno, da troppo tempo, di essere realizzata, di essere posta in atto. Solo in tal modo si può salvaguardare la propria dignità e quella del proprio Paese. Solo così l’auspicio espresso dal nunca mas, del “mai più”, può essere mantenuto.
Franco Di Giorgi