Grazie alle sollecitazioni della svedese Greta Thunberg i Fridays for Future -aggregazioni di giovani studenti che, protestando contro il cambiamento climatico, si riuniscono ogni venerdì davanti al Riksdag al grido di Skolstrejk för klimatet- sono finalmente sbarcati in ogni parte del mondo portando i giovani a scendere in piazza sotto lo slogan Non c’è un pianeta B
Nettamente superiore a Torino, ma anche a Ivrea, il 15 marzo, si è registrata una grande affluenza di giovani studenti e non; le marce si sono rispettivamente concluse in piazza Castello, e in piazza Ferruccio Nazionale.
Si è marciato per ricordare ai politici di turno, e anche a noi stessi, che il pianeta, la stessa terra –anche se sarebbe il caso di definirla cemento- che calpestiamo, sta morendo sotto i nostri occhi senza che nessuno muova un dito. La ricerca va investita nel giusto campo, nella sostenibilità ambientale, nella progettazione di macchinari a impatto zero per una miglioria dell’industria, nelle auto elettriche accessibili, nella sostituzione degli imballaggi in plastica, nelle fonti di energia rinnovabile. Un’industrializzazione green è ottenibile? Ma non solo, sta anche al singolo, a quei minimi tuttavia mastodontici accorgimenti che, se sommati, ora come ora, fanno la differenza. Il dito va puntato ad ambedue le parti: ai governi tanto quanto al popolo. E se nel nord del mondo la situazione si presenta drammatica, con le emissioni di gran lunga superiori al limite consentito, e con i Paesi per nessuna ragione intenzionati a rispettare l’accordo di Parigi, figurarsi lo scenario che si apre davanti allo sguardo nel sud del mondo. In Africa si affogano nei rifiuti, e anche l’ecosistema marino punta al disfacimento, inondato di plastica. Deve farci riflettere se in un Ateneo come quello di Torino, che sprona gli studenti alla giusta e sentita partecipazione alla marcia mondiale del 15 marzo, a Palazzo Nuovo manca la raccolta differenziata. Si getta tutto in un unico bidone, e si lascia che se ne occupi qualcun altro. E nel caso si sentisse la mancanza del kilometro zero, ai piedi dell’università, per risolvere il problema, è sorto un nuovissimo Burger King.
Non occorre andare troppo lontano, raggiungere l’oceano o il ‘terzo mondo’, per scovare la mala gestione del territorio basta guardarsi intorno.
Questo articolo vuole essere un’esatta ripetizione di ciò che è stato detto in questi ultimi giorni, siccome evidentemente non è bastato. Al governo, nazionale o europeo che sia, vogliamo qualcuno dotato di facoltà di ragionamento -qualità oggigiorno rarissima da riscontrare- affiancato da personale addetto e qualificato per ovviare al problema del surriscaldamento globale. Dopo gli innumerevoli ‘Sì’, e ‘Le cose cambieranno’, e ancora ‘Vi promettiamo che’, possiamo affermare con assoluta certezza che non vogliamo promesse, vogliamo fatti. Se nella quasi totalità delle situazioni da fronteggiare lo spirito di adattamento è un requisito fondamentale, qui si tratta della prima caratteristica da scartare: bisogna agire, non adattarsi, siccome tra pochi anni rimarrà ben poco da adattare. Scendiamo in piazza, facciamoci sentire, urliamo fino ad avere la gola lacerata se ne varrà la pena. Non è il pianeta a dover essere cambiato ulteriormente, ma la politica e le abitudini. Viene da pensare, in termini estremi, che l’antropocene sia stato un fallimento pilotato, un suicidio assistito. Tuttavia non tutto si può definire ancora perduto, se si agisce adesso. Siamo l’ultima generazione in grado di dare una svolta decisiva prima che sia troppo tardi, non gettiamo all’aria anche quest’ultima possibilità.
Qui sotto riportate alcune frasi ricorrenti ai cortei di ieri:
Sto lottando per i miei nipoti, e ho solo tredici anni.
Protestiamo, salviamo il pianeta.
Nell’acqua originale non c’era la plastica.
Ci avete rotto i polmoni.
La Terra è nelle nostre mani.
La Terra va a fuoco!
Perché studiare per un futuro che probabilmente non avremo?
E’ ora di aprire gli occhi, li abbiamo tenuti chiusi abbastanza.
Annalisa Mecchia