50 anni di Intercultura a Ivrea: intervista a Paolo Rebaudengo

Iniziamo la pubblicazione delle cinque interviste ad altrettanti giovani partiti nei 50 anni di vita del Centro Intercultura di Ivrea, con Paolo Rebaudengo partito nel 1964 che a Ivrea arrivò successivamente, ma fu fra i promotori della nascita del Centro locale eporediese.

Come è nata la tua esperienza di studente all’estero negli Stati Uniti d’America?

Era l’autunno del 1963, avevo 17 anni quando venni convocato dall’USIS (United States Information Service) di Napoli, dove studiavo, essendo stato selezionato per una borsa di studio dell’AFS (American Field Service). Feci un colloquio con due funzionari americani sui miei studi e i miei interessi e motivazioni a passare un anno con una famiglia americana, solitamente con figli all’incirca della mia età.
Dopo qualche mese, tornato per le vacanze estive a Cuneo dalla mia famiglia, ricevetti la conferma, con informazioni sulla destinazione: Dodge City, Kansas, 1707 Avenue C, presso la famiglia Mollohan, composta dalla madre, Margareth, direttrice della banda di una scuola, il padre, Roger, titolare di una agenzia assicurativa, due figli gemelli – Bill e Wilma, un anno meno di me, Bill violoncellista e Wilma flautista e una figlia più piccola, Joanne, nata tre anni dopo i gemelli. Avendo a mia volta un fratello e due sorelle, pensai che si sarebbe riprodotto un quadro familiare simile. Inoltre, anch’io ero appassionato di musica, studiavo il clarinetto, mio fratello e mia madre erano pianisti.

Siamo nella metà degli anni sessanta, gli spostamenti transoceanici erano un po’ più complessi di oggi, come sei arrivato negli USA?

Mi hanno detto di trovarmi una data di fine agosto alla stazione ferroviaria di Milano, dalla quale i borsisti italiani sarebbero partiti per Rotterdam, dove ci saremmo imbarcati su una nave della Holland America Line diretta a New York. La durata del viaggio era prevista di una settimana. Poi avremmo proseguito in autobus sino a Chicago. Da lì sarei io solo salito su un aereo sino a Kansas City, ove avrei trovato ad accogliermi la famiglia americana che mi avrebbe portato a casa a Dodge City, con un viaggio in auto di 335 miglia (540 km). Arrivò presto il giorno della partenza, i miei genitori vollero accompagnarmi sino a Milano, per salutarmi al treno diretto a Rotterdam.

Racconta del viaggio in nave da Rotterdam a New York

Il gruppo degli italiani/e davanti alla Seven Seas

Al porto ci attendeva la Seven Seas, una bellissima nave, riservata interamente dall’AFS, cabine comode a due posti, un ristorante elegante, due orchestre, una di musica classica e una di musica jazz. Ospitava anche un gruppo di iraniani e iraniane e gli studenti e studentesse americane di ritorno dall’Europa, che avevano il compito, nel corso del viaggio, di dedicare qualche ora a una orientation di tutti gli studenti in partenza. Eravamo in trentaquattro italiani, quattordici ragazze e venti ragazzi.
Quando, dopo quattro giorni di navigazione, ci comunicarono che a causa di un guasto alle macchine, la nave si sarebbe fermata per quattro giorni in mezzo all’Oceano Atlantico, con previsione di un ritardo altrettanto lungo, festeggiammo la notizia, eravamo tutti felici, il viaggio in nave costituiva una sorta di bolla meravigliosa che ci separava dalle famiglie italiane e ci allontanava dall’arrivo in nuovi territori e nuove famiglie. Questo nostro cosmo in mezzo al mare, nel mezzo dell’Atlantico, costituito da ragazzi e ragazze, era come un bel sogno.
Giunse infine l’attracco al porto di New York. Non era ancora sorto il sole quando cominciammo a intravvedere la Statua della Libertà.

Sarà stato emozionante. Chi vi aspettava a New York e come proseguì il viaggio?

Al porto trovammo ad accoglierci un giovane americano che l’AFS aveva incaricato di smistarci a seconda della destinazione. Per una parte di noi c’era un autobus che ci avrebbe portato a Chicago. Il rappresentante dell’AFS ci fece lasciare le valigie, che, disse, avremmo trovato allo sbarco dell’aereo che avremmo preso a Chicago. Gran parte di esse non sarebbe mai arrivata, perse o rubate al porto, essendo rimaste incustodite. A Chicago mi imbarcai, questa volta da solo, su un volo di linea diretto a Kansas City.

Giunto a Kansas City finalmente l’incontro con la tua nuova famiglia, come è andata?

Sì, lì trovai l’intera mia nuova famiglia. Partimmo per la destinazione finale, Dodge City.  Furono tante ore di auto, un paesaggio piatto di grandi farm, ognuna attrezzata con pompe per l’estrazione del petrolio in perpetuo movimento.

L’arrivo a casa: come era organizzata e come fu poi l’accoglienza in città?

Avrei condiviso una camera da letto con mio fratello Bill, le due sorelle avevano ciascuna la propria camera, i miei nuovi genitori una camera matrimoniale. Un’ultima camera da letto era per Grammy, la nonna, mamma di Margareth, che sarebbe sbarcata due mesi dopo il mio arrivo, dalla sua grande Buick, proveniente da una vacanza in Florida. Fu una presenza piacevole e affettuosa.
A Dodge City ebbi una grande accoglienza pubblica nello stadio della città, con la banda musicale e le majorette schierate in mezzo al campo formando le lettere P A O L O. Un discorso di benvenuto del sindaco e dello sceriffo e la consegna di una onorificenza: la stella col mio nome e cognome e la scritta Honorary Marshall di Dodge City, una grande bandiera americana e un cappello da cowboy e dopo qualche settimana un porto d’armi per la caccia.

Parlaci della scuola che hai frequentato e del tuo inserimento anche nelle attività extrascolastiche.

La Senior High School era piuttosto grande. Mi inserii subito nella banda musicale della scuola come clarinettista, più avanti anche in quella della città. Come componente della banda della scuola avrei seguito tutti gli eventi sportivi giocati dalle squadre della scuola in casa e in altre città. Suonai anche in una formazione di musica da camera e nella Pep Jazz Band.

 

 

 

Fui inserito anche nel comitato di redazione del giornale della scuola. L’anno scolastico passò rapidamente.

Il mio “angelo custode” era stata Melody, anche lei all’ultimo anno della Senior High School, di ritorno da un soggiorno organizzato dall’AFS in Cile. Mi avrebbe dato via via consigli di comportamento derivanti da “voci” che le arrivavano, la prima fu quella che mi attribuiva simpatie per il socialismo (parola da non pronunciare), poi simpatie per una compagna di classe di colore, Rochelle, che abitava vicino a me e con la quale mi piaceva tornare a piedi dalla scuola a casa: meglio non prendere questa abitudine poco apprezzata dalla comunità, mi consigliò Melody. Anche a Rochelle piaceva questa passeggiata. Quando nel corso di psicologia il docente le chiese se avrebbe sposato un uomo bianco lei rispose di sì ma solo se fosse stato un italiano.

Giunse la cerimonia della consegna dei diplomi e le feste, quella più elegante il ballo organizzato nella scuola.
Dopo arrivò una settimana di vacanza, durante la quale partecipai, insieme a tantissimi cittadini e cittadine al lavoro per far fronte a una inondazione da un vicino fiume che avrebbe danneggiato una parte della città se non fosse stata prevista da diversi giorni e non ci fosse stato il lavoro giorno e notte di tanti volontari. Gite a cavallo e festicciole in piscina riempirono gli altri giorni della vacanza.

Arrivò così il momento di rientrare in Italia, quale è stato il percorso del ritorno?

Il ritorno verso casa durò quasi un mese. Un autobus proveniente dal Sud mi prelevò a Dodge City; mi aggiunsi a tanti studenti AFS di diverse nazionalità che avevano anch’essi terminato il loro anno in scuole di diversi Stati. Il viaggio, con destinazione Montreal, prevedeva soste in alcune città lungo il percorso. In ogni sosta, di tre o quattro giorni, trovavamo famiglie che ci avrebbero ospitato ed eventi organizzati per noi. Conoscemmo così culture e modelli sociali diversi nel Nebraska, Iowa, Illinois, Indiana, Ohio, Washington DC, dove venimmo invitati nell’ambasciata italiana, con pranzo insieme all’ambasciatore, e alla Casa Bianca, ove Lyndon Johnson e la figlia Lucy, che aveva anche lei studiato all’estero, ci indirizzarono un discorso sull’importanza della conoscenza reciproca tra i popoli e il loro progetto per una “Great Society”.
A New York la sosta più lunga, con visite ai tanti musei e serate in locali con musica jazz Infine arrivammo Montreal dove noi italiani ci imbarcammo su un volo diretto a Milano.

Cosa ti ha portato a Ivrea e ad incontrare il neonato centro AFS-Intercultura?

Dopo diverse esperienze di lavoro approdai alla Olivetti di Ivrea il primo gennaio 1974.
Fu lì che ripresi i contatti con l’AFS nell’allora neonato centro locale, avendo incontrato alcuni volontari: Olga, Cristina, Giancarlo, Mauro, a cui nei mesi successivi si aggiunsero, al rientro dalla loro esperienza all’estero, Gloria, Chiara, Silvano, Enrica.
Partecipai, con incontri nel mio appartamento nel centro storico di Ivrea in via Siccardi, alla selezione dei candidati che sarebbero partiti nei mesi successivi, facendo crescere in competenza il piccolo, giovane gruppo di volontari che si dimostrò sin da subito attivo e vivace, tale da conquistare sin da subito credibilità agli occhi della cittadinanza.

a cura di Cadigia Perini

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